La recente uscita relativa ai dati di Luglio segnerebbe il raggiungimento di una traguardo simbolico: siamo tornati a superare i 23 milioni di occupati .
Essendo il dato sull’occupazione un importante indicatore per il suo doppio risvolto – economico e sociale – l’enfasi con cui si sottolinea questo risultato può ritenersi in parte giustificata: del resto è vero che da un po’ di mesi, pur con qualche oscillazione, la tendenza all’aumento sembrerebbe confermata.
Se però partiamo dall’assunto che l’informazione statistica deve servire a dare una esatta visione della evoluzione dei fenomeni osservati occorre anche considerare che quando le regole che stanno alla base dei comportamenti cambiano deve cambiare anche il tipo di informazione che viene fornita.
Da questo punto di vista, ritornando all’occupazione, non si può trascurare che da tempo (dal pacchetto Treu in avanti) i meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro sono cambiati nel tentativo di aumentarne la flessibilità. La conseguenza è che, se in un lontano passato essere occupato era di per sé una connotazione che dava una visione completa dello stato del lavoratore (in contrapposizione a quella di disoccupato), con la crescente flessibilità introdotta con le riforme suddette lo stato di occupato contiene al suo interno una pletora di modalità così diverse tra loro da rendere estremamente diversa la posizione dei diversi lavoratori.
Basta ricordare la stessa definizione di occupato: colui che ha svolto nella settimana di riferimento almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura. Quindi un’ora, un giorno, l’intera settimana sono equivalenti; sempre di un occupato si tratta.
Non è quindi un caso se, nel commentare i recenti dati sull’occupazione, si passa dalle considerazioni trionfalistiche a quelle preoccupate che mettono in evidenza come il traguardo raggiunto contenga fenomeni non tutti positivi, infatti:
• aumenta l’occupazione, ma aumenta soprattutto quella dei contratti a termine;
• aumenta la disoccupazione femminile;
• aumenta anche la disoccupazione degli ultracinquantenni, primo passo verso la disoccupazione di lunga durata.
Sembrerebbe, quindi, possibile dire tutto e il contrario di tutto.
Se però, al di là dei proclami, vogliamo comprendere cosa sta realmente accadendo nel mondo del lavoro è sufficiente confrontare l’aumento annuale dell’occupazione con quello del PIL: entrambi sono stimati attorno all’1,3%. Implicitamente, ciò significa che la produttività del lavoro non è aumentata, aggravando una situazione che caratterizza il paese oramai da molti anni.
Allora la domanda che sorge spontanea è come sia possibile, per un paese aperto alla concorrenza internazionale e che fa delle esportazioni il suo principale cavallo di battaglia, crescere se una già bassa produttività del lavoro non riesce a crescere.
L’unica risposta possibile è quella di ritornare ad esercitare una concorrenza di prezzo abbassando il costo delle lavoro in tutti i modi possibili, alcuni legali altri anche illegali. Basta confrontare l’evoluzione dell’orario di lavoro e quello del salario orario per verificare come entrambi siano ridotti, in controtendenza a quanto sta accadendo negli altri paesi.
Del resto, il fatto che in questi anni gli investimenti siano crollati e che la loro ripresa sia ancora da vedere significherà pure qualcosa sul fronte della produttività: è difficile pensare che con impianti vecchi (ed anche con lavoratori vecchi) le imprese possano innalzare la competitività; allora l’unico modo è scaricare tutto sul costo del lavoro.
Al dato sul numero di occupati bisognerebbe, quindi, riuscire ad associare qualche dato sull’orario di lavoro, sulla remunerazione e – perché no – sulle condizioni di lavoro, solo allora potremmo dire che la situazione è migliorata. Questo non lo si può fare mensilmente, ma ISTAT consente qualche lettura del genere se assumiamo un orizzonte temporale più consono a fornire letture economiche che siano almeno un po’ ragionevoli.
Ad oggi ciò che risulta con una certa chiarezza è che, se il numero di lavoratori è aumentato, le condizioni di lavoro sono decisamente peggiorate riproponendo per il paese una ricetta che è più consona ai paesi in via di sviluppo che ad un paese che ritiene di stare nel novero dei paesi sviluppati. Quando l’occupazione riparte senza nuovi investimenti occorre sempre porsi qualche domanda.
Aumentano i lavoratori, ma peggiorano le condizioni di lavoro
La recente uscita relativa ai dati di Luglio segnerebbe il raggiungimento di una traguardo simbolico: siamo tornati a superare i 23 milioni di occupati .
Essendo il dato sull’occupazione un importante indicatore per il suo doppio risvolto – economico e sociale – l’enfasi con cui si sottolinea questo risultato può ritenersi in parte giustificata: del resto è vero che da un po’ di mesi, pur con qualche oscillazione, la tendenza all’aumento sembrerebbe confermata.
Se però partiamo dall’assunto che l’informazione statistica deve servire a dare una esatta visione della evoluzione dei fenomeni osservati occorre anche considerare che quando le regole che stanno alla base dei comportamenti cambiano deve cambiare anche il tipo di informazione che viene fornita.
Da questo punto di vista, ritornando all’occupazione, non si può trascurare che da tempo (dal pacchetto Treu in avanti) i meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro sono cambiati nel tentativo di aumentarne la flessibilità. La conseguenza è che, se in un lontano passato essere occupato era di per sé una connotazione che dava una visione completa dello stato del lavoratore (in contrapposizione a quella di disoccupato), con la crescente flessibilità introdotta con le riforme suddette lo stato di occupato contiene al suo interno una pletora di modalità così diverse tra loro da rendere estremamente diversa la posizione dei diversi lavoratori.
Basta ricordare la stessa definizione di occupato: colui che ha svolto nella settimana di riferimento almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura. Quindi un’ora, un giorno, l’intera settimana sono equivalenti; sempre di un occupato si tratta.
Non è quindi un caso se, nel commentare i recenti dati sull’occupazione, si passa dalle considerazioni trionfalistiche a quelle preoccupate che mettono in evidenza come il traguardo raggiunto contenga fenomeni non tutti positivi, infatti:
• aumenta l’occupazione, ma aumenta soprattutto quella dei contratti a termine;
• aumenta la disoccupazione femminile;
• aumenta anche la disoccupazione degli ultracinquantenni, primo passo verso la disoccupazione di lunga durata.
Sembrerebbe, quindi, possibile dire tutto e il contrario di tutto.
Se però, al di là dei proclami, vogliamo comprendere cosa sta realmente accadendo nel mondo del lavoro è sufficiente confrontare l’aumento annuale dell’occupazione con quello del PIL: entrambi sono stimati attorno all’1,3%. Implicitamente, ciò significa che la produttività del lavoro non è aumentata, aggravando una situazione che caratterizza il paese oramai da molti anni.
Allora la domanda che sorge spontanea è come sia possibile, per un paese aperto alla concorrenza internazionale e che fa delle esportazioni il suo principale cavallo di battaglia, crescere se una già bassa produttività del lavoro non riesce a crescere.
L’unica risposta possibile è quella di ritornare ad esercitare una concorrenza di prezzo abbassando il costo delle lavoro in tutti i modi possibili, alcuni legali altri anche illegali. Basta confrontare l’evoluzione dell’orario di lavoro e quello del salario orario per verificare come entrambi siano ridotti, in controtendenza a quanto sta accadendo negli altri paesi.
Del resto, il fatto che in questi anni gli investimenti siano crollati e che la loro ripresa sia ancora da vedere significherà pure qualcosa sul fronte della produttività: è difficile pensare che con impianti vecchi (ed anche con lavoratori vecchi) le imprese possano innalzare la competitività; allora l’unico modo è scaricare tutto sul costo del lavoro.
Al dato sul numero di occupati bisognerebbe, quindi, riuscire ad associare qualche dato sull’orario di lavoro, sulla remunerazione e – perché no – sulle condizioni di lavoro, solo allora potremmo dire che la situazione è migliorata. Questo non lo si può fare mensilmente, ma ISTAT consente qualche lettura del genere se assumiamo un orizzonte temporale più consono a fornire letture economiche che siano almeno un po’ ragionevoli.
Ad oggi ciò che risulta con una certa chiarezza è che, se il numero di lavoratori è aumentato, le condizioni di lavoro sono decisamente peggiorate riproponendo per il paese una ricetta che è più consona ai paesi in via di sviluppo che ad un paese che ritiene di stare nel novero dei paesi sviluppati. Quando l’occupazione riparte senza nuovi investimenti occorre sempre porsi qualche domanda.
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