Traduzione dell’articolo di Dani Rodrik pubblicato su Project Syndicate con il titolo “What’s Been Stopping the Left?” (10 aprile 2018).
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Perché i sistemi politici democratici non hanno reagito con abbastanza prontezza alle proteste che i populisti autocratici hanno sfruttato con successo (disuguaglianze e preoccupazioni economiche, declino dello status sociale percepito, divario tra élite e cittadini comuni)? Se i partiti politici, in particolare quelli di centro-sinistra, avessero portato avanti un programma più coraggioso, forse si sarebbe potuta evitare l’ascesa di movimenti politici di destra e xenofobi.
In linea di massima, una maggiore disuguaglianza produce una richiesta di una maggiore ridistribuzione. […] Eppure, in pratica, le democrazie si sono mosse nella direzione opposta. La progressività delle imposte sul reddito è diminuita, si è incrementato il ricorso a imposte regressive sui consumi, e la tassazione dei capitali ha seguito una corsa globale al ribasso. Invece d’incentivare gli investimenti infrastrutturali, i governi hanno perseguito politiche di austerità, particolarmente dannose per i lavoratori a bassa specializzazione. Sono state salvate grandi banche e imprese, ma non le famiglie. Negli Stati Uniti, il salario minimo non è stato adeguato a sufficienza, permettendone l’erosione in termini reali.
In parte, il motivo risiede nel fatto che, almeno negli Stati Uniti, l’abbraccio da parte del partito Democratico delle identity politics (con l’inclusione che segue le linee di genere, razza e orientamento sessuale) […] è avvenuto a scapito di questioni pratiche come reddito e lavoro. Come scrive Robert Kuttner in un nuovo libro, l’unica cosa che mancava alla piattaforma di Hillary Clinton per le elezioni presidenziali del 2016 erano le classi sociali.
Una spiegazione è che i Democratici (e i partiti di centro-sinistra dell’Europa occidentale) si sono legati troppo a grande finanza e grandi imprese. Kuttner descrive come i leader del partito Democratico abbiano deciso esplicitamente di aprire un dialogo con il settore finanziario dopo le vittorie elettorali del presidente Ronald Reagan negli anni ‘80. Le grandi banche sono diventate particolarmente influenti non solo attraverso il loro peso finanziario, ma anche tramite il controllo di posizioni politiche chiave all’interno delle amministrazioni democratiche. Le politiche economiche degli anni ‘90 avrebbero potuto prendere una strada diversa se Bill Clinton avesse ascoltato maggiormente il suo segretario del Lavoro, Robert Reich, schierato su posizioni progressiste, e meno il suo segretario del Tesoro, Robert Rubin, ex dirigente di Goldman Sachs.
Ma gli interessi costituiti spiegano solo in parte il fallimento della sinistra. Le idee hanno avuto un ruolo almeno altrettanto importante. Dopo che negli anni ‘70 gli shock nell’offerta avevano dissolto il consenso keynesiano dell’era postbellica, e la tassazione progressiva e lo Stato sociale europeo non erano più in voga, il vuoto venne riempito dal fondamentalismo di mercato (chiamato anche neoliberismo), sostenuto da Ronald Reagan e Margaret Thatcher. La new wave sembrava, inoltre, aver catturato l’immaginario dell’elettorato.
Invece di sviluppare un’alternativa credibile, i politici di centro-sinistra hanno accettato totalmente il nuovo corso. I Nuovi Democratici di Bill Clinton e il New Labour di Tony Blair si sono comportati da cheerleader della globalizzazione. I socialisti francesi sono diventati inspiegabilmente sostenitori del lassismo sui controlli sui movimenti di capitali internazionali. L’unica differenza rispetto alla destra era il “dolcificante” che promettevano sotto forma di maggiori spese per programmi sociali e istruzione – che difficilmente sono diventate realtà.
L’economista francese Thomas Piketty ha recentemente documentato un’interessante trasformazione nella base sociale dei partiti di sinistra. Fino alla fine degli anni ‘60, i poveri generalmente votavano per partiti di sinistra, mentre i ricchi votavano per la destra. Da allora, i partiti di sinistra sono stati sempre più attratti dalle élite istruite, che Piketty chiama la “sinistra dei Bramini”, per distinguerla dalla classe dei “mercanti”, i cui membri votano ancora per i partiti di destra. Piketty sostiene che questa biforcazione delle élite abbia allontanato la politica dalle richieste di ridistribuzione. La sinistra bramina non è favorevole alla ridistribuzione, perché crede nella meritocrazia – un mondo in cui gli sforzi vengono premiati, e dove i redditi bassi sono più causati da un impegno insufficiente che della sfortuna.
[LEGGI ANCHE: THOMAS PIKETTY: PARTITI DI SINISTRA, PER TORNARE A VINCERE “GO LEFT”]
Certe idee hanno preso piede anche fra chi non fa parte delle élite, indebolendo le richieste di ridistribuzione. […] Gli elettori medi americani non sembrano molto interessati all’incremento delle aliquote fiscali marginali o a maggiori trasferimenti sociali. Questo sembra essere vero anche quando le persone sono consapevoli – e preoccupate – per il netto aumento delle disuguaglianze.
La spiegazione per questo apparente paradosso è il bassissimo livello di fiducia degli elettori nella capacità del governo di affrontare le disuguaglianze. […]
Dagli anni ’60, negli Stati Uniti la fiducia nel governo è generalmente diminuita, con alcuni alti e bassi. Vi sono tendenze analoghe anche in molti paesi europei, specialmente nell’Europa del sud. Ciò suggerisce che i politici progressisti che credono in un ruolo attivo del governo nel rimodellare le opportunità economiche hanno di fronte una strada in salita per conquistare l’elettorato. La paura di perdere quella battaglia può spiegare la timidezza nelle risposte a cui abbiamo assistito da parte della sinistra.
Tuttavia, studi recenti insegnano che le opinioni su ciò che il governo può e dovrebbe fare non sono immutabili. Sono soggette a persuasione, esperienze e circostanze mutevoli. Questo vale sia per le élite che per chi non ne fa parte. Ma una sinistra progressista, capace di affrontare gli xenofobi, dovrà fornire una buona storia, oltre che buone politiche.
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(Foto: Pixabay)