Durante il principato di Augusto tutte le istituzioni della Repubblica romana sono rimaste attive e funzionanti, formalmente. Tuttavia il sistema politico era depotenziato a favore della singola persona del princeps, tutti credevano che la Repubblica fosse finita e, soprattutto, che non potesse essere resuscitata. Vi era forma senza sostanza. Così Carlo Galli spiega il concetto di Post-Democrazia alla Casa della Cultura di Milano il 29 Aprile e nonostante sia un sabato di “ponte”, sono molte le orecchie fra giovani, donne e anziani che lo ascoltano presentare il suo volume “Democrazia senza popolo” partendo da questo concetto. Sono molti perché lì, alla presenza del Professore e di diversi esponenti politici non si sta facendo dell’accademia ma si stanno scoprendo i meccanismi che regolano e strutturano le nostre vite quotidiane.
Ascoltando il professor Galli agli studiosi della globalizzazione torna facilmente alla mente il passo di Amartya Sen in “Sviluppo e Libertà” (1999) nel quale il premio Nobel suggerisce che, se si considera come obiettivo desiderabile lo sviluppo e il benessere di individui e collettività, è necessario analizzare il buon funzionamento delle istituzioni nel loro complesso e non singolarmente. È proprio adottando questo approccio che Dani Rodrik nel suo “La globalizzazione intelligente” (2011) rileva quello che egli chiama il “trilemma della globalizzazione”: lo Stato nazionale, il mercato globale e la democrazia rappresentativa non possono coesistere e funzionare bene allo stesso tempo; solo due dei tre poli possono farlo e a seconda di ciò che si sceglie di implementare ci si muoverà in un diverso orizzonte economico e politico. Quanto emerge dalla lettura del libro di Galli – che enuncia in modo chiaro ciò che è facilmente intuibile prestando qualche attenzione alle cronache politiche quotidiane – è che in Italia, così come in Europa, si è scelto di mantenere lo Stato nazionale svuotato dai suoi poteri (e non potrebbe essere altrimenti per via dei parametri di Maastricht e della moneta unica) e l’adesione acritica alle regole del mercato globale, ottenendo così quella forma di post-democrazia che Rodrik chiama con espressione nota “la camicia di forza dorata degli esecutivi”. Essa consiste in un sistema nel quale il mercato decide, lo Stato per via parlamentare e politica esegue. In questo quadro la democrazia rappresentativa, i suoi rituali e le sue configurazioni, tutti formalmente esistenti, si riducono ad una funzione ancillare quando va bene e di riempimento di talk show e produzione di animali da infotainment quando va male. Su questo preciso passaggio è intervenuto Valdo Spini, partecipe alla presentazione del libro con gli altri ospiti (Enrico Rossi per Articolo UNO, Alessandro Capelli per Campo Progressista e Paolo Matteucci per Sinistra Italiana), ricordando l’importanza di conoscere e vivificare le grandi tradizioni di pensiero politico: Gramsci, Rosselli, Gobetti. “Se non si recupera quella pluralità di pensiero la politica diventa solo la gara a chi ha la camicia più bianca o ha 35 anni invece che 45”, commenta Spini. Della stessa opinione sembra essere anche Enrico Rossi che suggerisce il ritorno a pensieri lunghi, caldeggiando che siano proprio le giovani generazioni ad abbracciarli, in contrapposizione ad un’impostazione politica vuotamente governista che risulta tanto più ridicola poiché, come osservato dal professor Galli, si limita ad amministrare ciò che è stato già deciso altrove. Una democrazia senza popolo si articola innanzitutto in una politica senza partiti, dalla quale scaturisce un Parlamento che nella Post-Democrazia diviene un luogo svuotato di senso: nella Prima Repubblica le decisioni erano sì prese altrove, ma nelle segreterie di partito dove si svolgeva il processo decisionale era concentrata la rappresentanza di porzioni di popolo, di interessi di masse che venivano poi mediati dalla dialettica istituzionale, così salvaguardando la tenuta del patto sociale.
La Repubblica italiana sembra oggi, sull’esaurirsi della Seconda e nell’apertura della Terza, non fondata sul lavoro come da Art.1 della sua Costituzione ma fondata sul profitto; ne è epifenomeno la tensione alle “riforme” senza che a questo sostantivo sia giustapposta un’aggettivazione che ne specifichi il segno, fino ad arrivare ad affermare senza destare scandalo, come rievoca il professor Galli citando un uomo di finanza, che “le costituzioni democratiche sono un problema per il capitalismo”. Ciò risulta in un tentativo continuo di adattare le istituzioni democratiche al funzionamento del mercato, alle esigenze del capitale globale, alle logiche economiche che mirano all’accumulazione e non certo al benessere della maggioranza degli individui e della società. Quella società che, proprio aggregandosi in corpi rappresentativi, riusciva faticosamente ad opporre alle ragioni del profitto quelle del lavoro. Enrico Rossi sostiene a questo proposito che “un partito di sinistra muore quando diserta la critica dell’esistente”: quello sguardo critico che Galli veicola nel suo testo e che ripropone durante l’incontro, atto ad evidenziare che esiste in realtà una dialettica oppositiva fra coloro che argomentano a favore della necessità di giustizia sociale (convenzionalmente: la sinistra) e coloro che lo fanno a favore delle libertà economiche individuali.
Tutti gli interlocutori insistono sull’esigenza che la sinistra torni ad avere idee importanti: Alessandro Capelli insiste su questo sostenendo che, ad esempio, ripartire dal lavoro significa comprendere i fallimenti del Jobs Act ma anche dei precedenti approcci a quel mondo che non ne hanno saputo cogliere i fondamentali cambiamenti. Idee plurali che si incardinino tuttavia in un paradigma preciso: “La sinistra esisterà e avrà successo, cioè sarà effettuale quando avrà un’idea dell’Italia. Io vedo soltanto un’idea dell’Italia oggi in circolazione, che è quella terribile della Lega, è un’idea detestabile ma la Lega ce l’ha. Tutti gli altri balbettano”, così Galli sintetizza lo stato dell’arte ideologico delle formazioni politicheDani Rodrik che alla Lega (e non solo) dovrebbero contrapporsi. Si percepisce una tensione al recupero di quel “patriottismo costituzionale” che oggi sembra l’unica via per risolvere il trilemma di Rodrik non a favore dei mercati, come è avvenuto sin qui, ma a favore della democrazia rappresentativa: intendere di rinunciare alla dittatura del profitto in tutte le sue forme, ivi incluse quelle imposte da un’Europa imperniata sull’ordoliberismo tedesco sempre più simile al neoliberismo tout court, per recuperare gli altri due lemmi del trilemma, significa avere un’idea. Un’idea ambiziosa e non poco: Luciano Canfora nel suo “La schiavitù del capitale” (2017) inserisce un’appendice “Schiavitù e indipendenza nazionale” nella quale, significativamente, si trovano il discorso di Tsipras ad Atene il 27 Giugno 2015 in occasione del referendum indetto intorno all’accettazione del piano finanziario imposto dalla Trojka e quello che Allende trasmette via radio mentre è assediato dal colpo di Stato l’11 Settembre 1973.
Due esempi che ricordano quanto il compromesso fra capitale e democrazia sia stato forzoso e, una volta saltato, sembri sempre più complesso da recuperare per via democratica: è come combattere contro un uomo con la pistola armati di una spada giocattolo, con le mani legate dietro la schiena e una benda sugli occhi. Rievocando questi due passaggi storici attraverso i due discorsi, i litigi, i personalismi, le piccole beghe di quartiere della sinistra italiana sembrano improvvisamente ridimensionarsi; quella sinistra italiana così arretrata persino rispetto alle – sempre comunque ancora insufficienti come proprio la vicenda greca dimostra – risposte date da Sanders negli USA, da Corbyn in Inghilterra, da Podemos in Spagna, Mélenchon in Francia. Personalità diverse appoggiate da partiti, soggetti, compagini politiche differenti ma accomunate da un comune afflato ideale, dal medesimo perimetro ideologico e dalla capacità di incidere nelle dinamiche sociali e politiche del loro paese.
Paolo Matteucci interviene suggerendo che una possibile motivazione di questa “mancanza” nostrana sia la continuità che ha portato una parte consistente della militanza del Pci poi Pds-Ds a tradursi nel Partito Democratico, mentre il sindacato ha scelto di percorrere maggiormente la strada della concertazione rispetto a quella del conflitto: due elementi che avrebbero consentito di incanalare forze e movimenti in un percorso di rappresentanza tradizionale che recentemente, di fronte alla rottura del processo concertativo ad opera del governo Renzi e della non sovrapponibilità del Partito Democratico con il campo della “sinistra”, avrebbe subito un brusco arresto.
Che fare dunque in questo quadro? La presentazione di un libro così pregno di ragionamenti da approfondire non avrebbe certo potuto essere il luogo adatto a rispondere, ma qualche utile suggerimento è stato largamente condiviso. Spini, a questo proposito, suggerisce che “ci chiederanno: siete capaci di stare insieme? […] questo tavolo, a prescindere dalle singole scelte, è un buon segnale”. Ciò su cui tutti gli interlocutori sembrano convergere è la parola chiave pronunciata dal professor Galli: Discontinuità. Una discontinuità non solo evocata ma che deve necessariamente iniziare ad essere praticata. Chi scrive ritiene che debba essere praticata proprio nei termini in cui Galli prova a suggerirla: sino ad ora si è lasciato spazio ad un modello economico che “non vuole la politica come sovrana […] è l’idea della sovranità del mercato quella che ha vinto e dentro questa siamo. Quello che ha fatto la sinistra in questi anni è meglio che non ce lo diciamo perché ha aperto le porte a tutto ciò. Tutte le riforme europee di deregulation portano il timbro di governi di sinistra. È per questo che la sinistra non è molto popolare fra i ceti popolari”. E ancora “Il rapporto di causa-effetto fra neoliberismo e protesta populista fra virgolette sembra sfuggire ai brillanti analisti mainstream […] le conseguenze del cattivo funzionamento di alcuni dogmi economici le chiamiamo populismo”. Qualunque cosa decideranno di fare le forze politiche che abbiano a cuore lo sviluppo dell’Italia e la giustizia sociale, non potranno che farla a partire da questa consapevolezza.
Infondo, anche sapere dei propri errori è avere un’idea. Ad esempio, sapere che il centrosinistra, in Italia, in Europa, fino al “centrosinistra” mondiale coinciso con i Clinton negli USA, si è avvicinato così tanto al centrodestra da aver persino generato della prole: Emmanuel Macron, il banchiere di Francia, ultimo “argine al populismo” lepenista e al suo contempo causa, è avere un’idea. Sapere che la sinistra meramente protestataria che si affida allo spontaneismo avanguardista pensando che le masse la seguiranno pur nell’evidenza del contrario sempre ripetuta, è avere un’idea. Se si vogliono dare braccia e gambe alla discontinuità bisogna farlo oltre le terze vie e oltre le teorie delle moltitudini, entrambe egualmente invise a chiunque abiti il perimetro esterno dei centri storici urbani dove, in questi ultimi, risiedono persone molto istruite e mediamente ancora benestanti. Desiderare di costruire qualcosa che poggi anche fuori da quei centri urbani è avere un’idea e anche un sogno. Di più, bisogna farlo tornando a concepire una configurazione complessiva del vivere all’interno della quale si inscriva l’azione collettiva di medio-lungo periodo di un soggetto, di un fronte, di una compagine che dir si voglia, capace di pensare, pensarsi, radicarsi e rappresentare. Soprattutto, è urgente accantonare quel moto sdegnato con il quale si derubricano così spesso i risultati elettorali: quel liquidatorio “gli elettori non hanno capito” che è stato anche l’incipit della legislatura nel 2013 nello sconcerto dei dirigenti di Italia Bene Comune. Gli elettori in realtà hanno capito benissimo: d’altro canto il costo della post-democrazia, assai più significativo di qualche rimborso elettorale additato come pietra dello scandalo dal blog di un comico miliardario, lo pagano loro e il conto è sempre più salato.
L’incontro è stato organizzato da I Pettirossi, rete di ragazzi e ragazze attiva da un anno in diverse regioni d’Italia nel tentativo di animare il dibattito di cultura politica; ma avrebbe potuto essere tenuto da chiunque si ritrovi sulle quelle che ritengo essere le tre scommesse fondamentali della contemporaneità, che ho brevemente riepilogato in apertura dell’evento:
(1) l’idea che il socialismo sia il futuro e non il passato, e, in particolare, la convinzione che nella sua variante eco-socialista sia l’unico paradigma in grado di combattere l’avanzata dell’estrema destra – come si è visto in tutto Occidente – poiché capace di attrarre il voto del ceto medio impoverito e incazzato e di strappare i giovani all’astensione.
(2) L’idea che si possano ridiscutere e combattere le regole del capitalismo globale finanziario e di un’Europa forte coi deboli e debole coi forti.
(3) L’idea che si possa costruire un soggetto politico duraturo, che senza nuovismi e rottamazioni veda un protagonismo giovanile; un soggetto che possa essere radicale nella proposta come radicali sono le diseguaglianze che viviamo e riformista nella prassi, in linea con la migliore tradizione di cultura politica italiana.
Questo soggetto in Italia ancora non esiste ma credendo fermamente nell’esistenza di uno spazio e di una necessità storica per costruirlo non è ancora giunto il tempo di disperare: le nostre ragioni possono salvare la democrazia, ma per farlo devono primariamente ritrovare un popolo. Quest’ultimo è tutto da ricostruire e la ricostruzione non potrà che avvenire con coloro che si continueranno a mettere testardamente a disposizione di un progetto che stia a questa altezza di pensiero e ad una nuova bassezza di origine. “Mi sono convinto che, anche quando tutto sembra perduto, bisogna mettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio”, così scriveva Gramsci e, per una volta, così sembravano dirci anche tutti i nostri interlocutori. Abbiamo fortemente voluto tenere questo dibattito il giorno prima delle primarie del principale partito di Governo, il Partito Democratico. Oggi, Domenica 30 Aprile, il PD si riconferma #incammino lungo il sentiero del macronismo. E noi?
—
Nella foto di copertina: Relatività, M.C. Escher