Si sente un gran parlare (TV, giornali, fonti governative, partiti di governo) di risultati “formidabili” rivelati dall’ultumo Rapporto Istat pubblicato il 9 Gennaio, addirittura il maggior numero di “posti di lavoro” da 40 anni a questa parte: tutto va bene, madama la marchesa. E’ veramente così?
Il problema non è quello della veridicità dei dati (nessuno può sospettare che l’Istat divulghi notizie false), quanto quello della loro interpretazione: e qui le note diventano abbastanza dolenti. Tranne poche eccezioni, la gran parte dei commentatori, sia della carta stampata che dei media televisivi o della Rete, si butta a corpo morto sui dati “più positivi“, li assume nella loro espressione “aggregata” (nella gran parte dei casi, senza fare distinzioni in ordine alla loro composizione) e si presta così – talvolta ingenuamente, ma in molti casi con consapevole complicità – all’uso strumentale e propagandistico delle statistiche, che più che all’esultanza dovrebbero indurre alla preoccupazione. Non si tratta di voler guardare il classico bicchiere e giudicarlo mezzo pieno o mezzo vuoto: dietro le statistiche ci sono persone, situazioni esistenziali, sofferenze, problemi vitali, ed è prova di cinismo sociale presentare per assolutamente positivi dei dati che invece, a rifletterci con un minimo di serietà e di onestà (quelle che specialmente i ceti dirigenti dovrebbero imporsi come obbligatorie), contengono molte criticità ed indicano, piuttosto che dei meriti – quelli che i commentatori interessati, politici e governativi, vorrebbero attribuirsi, “manipolando” i dati secondo la loro convenienza -, inadeguatezze e necessità di percorrere strade diverse ed adottare misure alternative a quelle finora praticate.
Non è per un’attenzione eccessiva verso una specifica persona, ma quando si legge che l’ex Presidente del Consiglio Renzi – che è stato al potere per la massima parte della legislatura che sta terminando (i fatidici “1000 giorni“, da lui tanto vantati ma evidentemente con scarse condivisioni) – scrive su Facebook che «Con i dati Istat di oggi si realizza un risultato storico. Da febbraio 2014 a novembre 2017 l’Italia ha recuperato più di un milione di posti di lavoro: 1.029.000 per la precisione (di cui il 53% a tempo indeterminato). Il Jobs Act ha fatto aumentare le assunzioni, non i licenziamenti: il tempo è galantuomo, lo diciamo sempre», non si può non essere percorsi da un moto di indignazione, perché si sa per certo che quelle parole non vengono da uno che non sa quello che dice (lo sa bene, certo), ma corrispondono ad un intento di mascherare la realtà delle cose e di volgerla a proprio vantaggio.
Le ragioni dell’indignazione sono molte, se ne può accennare qualcuna: anzitutto (quante volte lo si è detto?), non sono “posti di lavoro” ma semplicemente “occupati” (basta anche solo un’ora di lavoro in una settimana ad essere definiti “occupati“, come lo stesso Istat scrive nel Glossario: altro che “53% a tempo indeterminato“, come blatera Renzi senza dire da dove deriva quel dato – che in realtà non esiste, basta leggere per davvero i Rapporti Istat per rendersene conto). Renzi, poi, tace sui 152.000 lavoratori autonomi persi in un anno – Prospetto 3 del Rapporto Istat; come sulla perdurante crisi occupazionale della fascia di età 35-49 anni, che in un anno ha perso altri 161.000 occupati – come è avvenuto invariabilmente ogni anno, dal 2014 ad oggi: lo si legge nella successione dei Rapporti Istat -, come evidenziato dal Prospetto 4; come sul fatto che dei 345.000 “occupati” in più in un anno, ben 396.000 – più del saldo positivo – appartengono alla fascia di età 50-64 anni, come da Prospetto 4. Lo stesso Rapporto Istat recita che «La crescita (su base annua) si concentra tra i lavoratori dipendenti (+497 mila, di cui +450 mila a termine e +48 mila permanenti)». Ora non è per pedanteria, ma per dimostrare in modo semplice la “palloneria” del rignanese: se la crescita complessiva di “occupati” è stata, come dice Renzi, “di 1.029.000 unità, di cui il 53% a tempo indeterminato“, vuol dire che gli occupati a tempo determinato complessivi, “da febbraio 2014 a novembre 2017“, dovrebbero essere il 47% (la differenza) di quel milione29.000, quindi 483.000. Senonché, come riportato dal Rapporto Istat, nel solo ultimo anno vi sono stati “450 mila a termine”: si deve allora pensare, e credere, che nei due anni e mezzo precedenti vi siano stati soltanto 33.000 “occupati” a termine, per fare quel totale di 483.000? E’ evidente che il dato proclamato da Renzi è falso.
E poi c’è una questione, tutt’altro che secondaria: quella della qualità del lavoro. In un ottimo articolo di commento su “Il Sole 24 Ore” del 9 Gennaio, Alberto Magnani ha scritto che “Se si dà un occhio ai dati destagionalizzati del terzo trimestre 2017, si scopre che tre fra i settori più in crescita nel segmento dei servizi ci sono «noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese» (+2,5%), «attività immobiliari» (corrispondenti ad esempio al ruolo di agente immobiliare, +2,1%) e «attività dei servizi di alloggio e di ristorazione» (+1,4%)“; riportando uno studio di Emilio Reyneri, sociologo del lavoro all’Università Bicocca di Milano, Magnani aggiungeva che “Un’indagine basata su dati Ocse ha rivelato che l’Italia è l’unico mercato europeo (insieme alla Grecia) dove la ripresa non ha favorito la crescita di professioni ad alto tasso di qualifiche; anzi, in proporzione la domanda di lavoro sembra orientata soprattutto verso il basso“; la conseguenza è che “Professioni a basse qualifiche significa salari scarsi e minore produttività” (e, quindi, minore ricchezza prodotta); inoltre, aggiunge Magnani citando ancora Reyneri, “la diffusione di lavori elementari espone i lavoratori a un maggior rischio di automatizzazione. O, semplicemente, a un minor peso specifico sul mercato del lavoro, con la possibilità di essere rimpiazzati a costo uguale o minore“.
Dunque bisogna chiedersi (soprattutto i responsabili politici dovrebbero chiedersi): è questa l’Italia che vogliamo? Se quella (analizzata da Magnani e da Reyneri) fosse l’occupazione dei nostri figli (o nipoti) – i nostri, quelli di ognuno di noi, non quelli vaghi di una statistica -, ne saremmo soddisfatti? Renzi, per i suoi figli, ne esulterebbe? Già il 20 Dicembre 2016 Marta Fana, eccellente giovane ricercatrice e poi autrice del best-seller “Non è lavoro, è sfruttamento” (Laterza, Ottobre 2017), in una lettera aperta al ministro Poletti (http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/12/20/news/caro-poletti-avete-fatto-di-noi-i-camerieri-d-europa-1.291709), aveva scritto “avete fatto di noi i camerieri d’Europa“: è questo, sono queste le “occupazioni” che desideriamo?
Non bisogna, perciò, farsi ingannare dalla canea asservita: bisogna guardare dentro i risultati, non prenderli per buoni a scatola chiusa ma vedere da che cosa sono composti: chi volutamente presenta i dati in modo incompleto (ed ingannevole) sta tentando di imbrogliare i cittadini: che faranno bene a ricordarsene, il prossimo 4 Marzo.
I dati Istat: lavori precari e a bassa qualifica, altro che “risultato storico”
Si sente un gran parlare (TV, giornali, fonti governative, partiti di governo) di risultati “formidabili” rivelati dall’ultumo Rapporto Istat pubblicato il 9 Gennaio, addirittura il maggior numero di “posti di lavoro” da 40 anni a questa parte: tutto va bene, madama la marchesa. E’ veramente così?
Il problema non è quello della veridicità dei dati (nessuno può sospettare che l’Istat divulghi notizie false), quanto quello della loro interpretazione: e qui le note diventano abbastanza dolenti. Tranne poche eccezioni, la gran parte dei commentatori, sia della carta stampata che dei media televisivi o della Rete, si butta a corpo morto sui dati “più positivi“, li assume nella loro espressione “aggregata” (nella gran parte dei casi, senza fare distinzioni in ordine alla loro composizione) e si presta così – talvolta ingenuamente, ma in molti casi con consapevole complicità – all’uso strumentale e propagandistico delle statistiche, che più che all’esultanza dovrebbero indurre alla preoccupazione. Non si tratta di voler guardare il classico bicchiere e giudicarlo mezzo pieno o mezzo vuoto: dietro le statistiche ci sono persone, situazioni esistenziali, sofferenze, problemi vitali, ed è prova di cinismo sociale presentare per assolutamente positivi dei dati che invece, a rifletterci con un minimo di serietà e di onestà (quelle che specialmente i ceti dirigenti dovrebbero imporsi come obbligatorie), contengono molte criticità ed indicano, piuttosto che dei meriti – quelli che i commentatori interessati, politici e governativi, vorrebbero attribuirsi, “manipolando” i dati secondo la loro convenienza -, inadeguatezze e necessità di percorrere strade diverse ed adottare misure alternative a quelle finora praticate.
Non è per un’attenzione eccessiva verso una specifica persona, ma quando si legge che l’ex Presidente del Consiglio Renzi – che è stato al potere per la massima parte della legislatura che sta terminando (i fatidici “1000 giorni“, da lui tanto vantati ma evidentemente con scarse condivisioni) – scrive su Facebook che «Con i dati Istat di oggi si realizza un risultato storico. Da febbraio 2014 a novembre 2017 l’Italia ha recuperato più di un milione di posti di lavoro: 1.029.000 per la precisione (di cui il 53% a tempo indeterminato). Il Jobs Act ha fatto aumentare le assunzioni, non i licenziamenti: il tempo è galantuomo, lo diciamo sempre», non si può non essere percorsi da un moto di indignazione, perché si sa per certo che quelle parole non vengono da uno che non sa quello che dice (lo sa bene, certo), ma corrispondono ad un intento di mascherare la realtà delle cose e di volgerla a proprio vantaggio.
Le ragioni dell’indignazione sono molte, se ne può accennare qualcuna: anzitutto (quante volte lo si è detto?), non sono “posti di lavoro” ma semplicemente “occupati” (basta anche solo un’ora di lavoro in una settimana ad essere definiti “occupati“, come lo stesso Istat scrive nel Glossario: altro che “53% a tempo indeterminato“, come blatera Renzi senza dire da dove deriva quel dato – che in realtà non esiste, basta leggere per davvero i Rapporti Istat per rendersene conto). Renzi, poi, tace sui 152.000 lavoratori autonomi persi in un anno – Prospetto 3 del Rapporto Istat; come sulla perdurante crisi occupazionale della fascia di età 35-49 anni, che in un anno ha perso altri 161.000 occupati – come è avvenuto invariabilmente ogni anno, dal 2014 ad oggi: lo si legge nella successione dei Rapporti Istat -, come evidenziato dal Prospetto 4; come sul fatto che dei 345.000 “occupati” in più in un anno, ben 396.000 – più del saldo positivo – appartengono alla fascia di età 50-64 anni, come da Prospetto 4. Lo stesso Rapporto Istat recita che «La crescita (su base annua) si concentra tra i lavoratori dipendenti (+497 mila, di cui +450 mila a termine e +48 mila permanenti)». Ora non è per pedanteria, ma per dimostrare in modo semplice la “palloneria” del rignanese: se la crescita complessiva di “occupati” è stata, come dice Renzi, “di 1.029.000 unità, di cui il 53% a tempo indeterminato“, vuol dire che gli occupati a tempo determinato complessivi, “da febbraio 2014 a novembre 2017“, dovrebbero essere il 47% (la differenza) di quel milione29.000, quindi 483.000. Senonché, come riportato dal Rapporto Istat, nel solo ultimo anno vi sono stati “450 mila a termine”: si deve allora pensare, e credere, che nei due anni e mezzo precedenti vi siano stati soltanto 33.000 “occupati” a termine, per fare quel totale di 483.000? E’ evidente che il dato proclamato da Renzi è falso.
E poi c’è una questione, tutt’altro che secondaria: quella della qualità del lavoro. In un ottimo articolo di commento su “Il Sole 24 Ore” del 9 Gennaio, Alberto Magnani ha scritto che “Se si dà un occhio ai dati destagionalizzati del terzo trimestre 2017, si scopre che tre fra i settori più in crescita nel segmento dei servizi ci sono «noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese» (+2,5%), «attività immobiliari» (corrispondenti ad esempio al ruolo di agente immobiliare, +2,1%) e «attività dei servizi di alloggio e di ristorazione» (+1,4%)“; riportando uno studio di Emilio Reyneri, sociologo del lavoro all’Università Bicocca di Milano, Magnani aggiungeva che “Un’indagine basata su dati Ocse ha rivelato che l’Italia è l’unico mercato europeo (insieme alla Grecia) dove la ripresa non ha favorito la crescita di professioni ad alto tasso di qualifiche; anzi, in proporzione la domanda di lavoro sembra orientata soprattutto verso il basso“; la conseguenza è che “Professioni a basse qualifiche significa salari scarsi e minore produttività” (e, quindi, minore ricchezza prodotta); inoltre, aggiunge Magnani citando ancora Reyneri, “la diffusione di lavori elementari espone i lavoratori a un maggior rischio di automatizzazione. O, semplicemente, a un minor peso specifico sul mercato del lavoro, con la possibilità di essere rimpiazzati a costo uguale o minore“.
Dunque bisogna chiedersi (soprattutto i responsabili politici dovrebbero chiedersi): è questa l’Italia che vogliamo? Se quella (analizzata da Magnani e da Reyneri) fosse l’occupazione dei nostri figli (o nipoti) – i nostri, quelli di ognuno di noi, non quelli vaghi di una statistica -, ne saremmo soddisfatti? Renzi, per i suoi figli, ne esulterebbe? Già il 20 Dicembre 2016 Marta Fana, eccellente giovane ricercatrice e poi autrice del best-seller “Non è lavoro, è sfruttamento” (Laterza, Ottobre 2017), in una lettera aperta al ministro Poletti (http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/12/20/news/caro-poletti-avete-fatto-di-noi-i-camerieri-d-europa-1.291709), aveva scritto “avete fatto di noi i camerieri d’Europa“: è questo, sono queste le “occupazioni” che desideriamo?
Non bisogna, perciò, farsi ingannare dalla canea asservita: bisogna guardare dentro i risultati, non prenderli per buoni a scatola chiusa ma vedere da che cosa sono composti: chi volutamente presenta i dati in modo incompleto (ed ingannevole) sta tentando di imbrogliare i cittadini: che faranno bene a ricordarsene, il prossimo 4 Marzo.
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Franco Bianco
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