Non so fino a che punto sia autentica l’affermazione attribuita all’ avvocato Gianni Agnelli, per la quale “ciò che va bene per la Fiat va bene per l’Italia“. Lui stesso, in un’intervista televisiva a Giovanni Minoli la corresse e integrò dicendo: “Quel che è male per Torino è sempre male per l’Italia“. Al di là del più marcato riferimento alla città sabauda (del resto l’acronimo Fiat vuol dire Fabbrica italiana automobili Torino) la sostanza non cambia. E soprattutto sono le cronache e la storia a dimostrare e confermare il rilevante intreccio che sempre c’è stato tra le vicende di Torino (Fiat) e quelle del Paese (politica e classe dirigente).
In questi giorni il precipitare delle condizioni di salute dell’amministratore delegato di quella che oggi si chiama Fca ha fatto sì che si parlasse molto della Fiat soprattutto per elogiare (in molti casi giustamente) la capacità di quell’amministratore delegato che è riuscito a salvare, sfidando e utilizzando le occasioni della globalizzazione e sacrificando buona parte del suo ancoraggio torinese e italiano, quella che ai più (mercati compresi) era percepita come un’azienda praticamente fallita.
Ma c’è stata una Fiat anche prima dell’arrivo di Marchionne. Un’azienda, un’impresa in grado di condizionare nel bene e nel male non soltanto le relazioni industriali, ma soprattutto lo sviluppo economico dell’Italia. Ed è stata quella la Fiat dei Valletta dei Gianni e Umberto Agnelli, e, aggiungerei, dei Cesare Romiti.
Cominciamo dai tempi di Valletta. E’ una Fiat fortemente “Torino centrica“: mentre Adriano Olivetti si spinge nel Mezzogiorno portando fabbriche a Pozzuoli e Marcianise la Fiat resta ancorata al Nord, e se deve fare nuovi stabilimenti preferisce farli a ridosso del capoluogo piemontese a cominciare da Rivalta torinese. Sono anni di grande migrazione interna: la fanterie del lavoro del Mezzogiorno prendono i treni per andare a cercare lavoro nel Nord. I “terroni” si spostano in città che non li accolgono bene. A Torino ci sono cartelli che recitano: “non si affitta ai meridionali“. E qualcosa ce l’ha raccontata anche il cinema del neorealismo con film del tipo “Rocco e i suoi fratelli“. Nè le cose vanno meglio dal punto di vista delle relazioni industriali. Sono gli anni degli accordi sindacali separati e, persino, della schedature degli operai comunisti. Attenzione, però, sarebbe un errore liquidare il mondo che c’è attorno alla Fiat di Valletta come reazionario e basta. Qualcosa si muove a Torino. Per esempio “La Stampa“, il giornale di azienda e di famiglia, è tra i grandi giornali italiani, l’unico a guardare con attenzione, talvolta con prudente benevolenza ai primi tentativi di apertura a sinistra (possibilmente non oltre i socialdemocratici di Saragat) della politica italiana. Intanto gli operai venuti dal Sud cominciano ad integrarsi, nella grande fabbrica scoprono il sindacato e molti di loro tifano e tiferanno Juventus.
Si arriva così all’era Agnelli, all’avvocato che guida la Fiat, avendo un buon rapporto con i governi e con la politica e riuscendo, così, anche negli anni delle grandi lotte operaie dell’autunno caldo a mandare avanti, con un po’ di consociativismo, la realtà e, soprattutto, l’immagine della Fiat. Da presidente della Confindustria farà pure l’accordo sulla scala mobile con Lama e Cgil, Cisl, Uil, facendo arrabbiare non poco il leader repubblicano Ugo La Malfa. Con i sindacati il rapporto è all’insegna del fair play. Lama, che è tifoso juventino, racconterà che quando si trova per impegni sindacali in una città dove quella domenica gioca la squadra bianconera, l’avvocato gli manda in albergo per portargli il suo saluto un suo calciatore, una volta financo Platini.
Ma, intanto, le tensioni sociali nel Paese crescono, dall’autunno caldo e dalle rivolte studentesche arrivano segnali di scontri, talvolta di violenze, comincia a organizzarsi anche il terrorismo. E si arriva così alla viglia degli anni 80. A Torino è arrivato un nuovo amministratore delegato Cesare Romiti. Negli stabilimenti Fiat il rapporto con i sindacati è messo a dura prova. Le organizzazioni estremiste fanno proseliti. E, intanto, cresce anche l’assenteismo. Si arriva così al processo dei 61d ipendenti Fiat che si sono resi responsabili di episodi di violenza. Lama con coraggio parla agli operai per difendere i quadri intermedi. “Anche i capi sono operai“, scandisce dinanzi ad un uditorio per nulla consenziente. Intanto i conti aziendali non vanno bene. Partono prima i licenziamenti, poi la cassa integrazione. E inizia la vertenza dei 35 giorni dell’ottobre 1980: picchetti ai cancelli di Mirafiori, blocco delle merci in entrata e in uscita. Ma il sindacato si è sopravvalutato. Alla fine perderà e dopo 35 giorni, e la prova di forza della marcia dei quarantamila, accetterà un accordo lacrime e sangue con tanta cassa integrazione e scarsissime garanzie per rientri o riallocazione dei lavoratori.
Alla fine le cose non andranno bene per nessuno: anche i quadri intermedi, quelli della sfilata, saranno messi ai margini dell’azienda e presto ne usciranno. Nè la crisi dell’auto risparmierà la Fiat del dopo Romiti. Tant’è che, dopo un succedersi di non sempre adeguati capi azienda, servirà la cura Marchionne e la creazione di un nuovo gruppo tanto dentro la globalizzazione quanto sempre meno italiano o torinese che dir si voglia.
Eppure qualche merito la Fiat di Agnelli e Romiti può e deve rivendicarlo. Proprio Romiti, in una trasmissione televisiva ebbe a dire, schernendo chi con bullismo e prosopopea degna di miglior causa si vantava di non sentire mai i sindacati: “Io li sentivo sempre, anche nei giorni nei quali mi avevano occupato le fabbriche“. Ecco. C’è da chiedersi: se quell’esile filo che teneva insieme la possibilità che in ogni caso, in ogni momento, consentiva a forze sociali contrapposte di confrontarsi, sarebbe stato possibile negli anni ’80 sconfiggere il terrorismo? E di questo credo i protagonisti delle relazioni industriali e sociali di quegli anni possono menarne vanto. Con buona pace di coloro che dicono: era solo consociativismo.
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Foto in evidenza: La storica stretta di mano tra Luciano Lama e Gianni Agnelli
La Fiat, le relazioni industriali, la politica: una storia che è stata soprattutto italiana
Non so fino a che punto sia autentica l’affermazione attribuita all’ avvocato Gianni Agnelli, per la quale “ciò che va bene per la Fiat va bene per l’Italia“. Lui stesso, in un’intervista televisiva a Giovanni Minoli la corresse e integrò dicendo: “Quel che è male per Torino è sempre male per l’Italia“. Al di là del più marcato riferimento alla città sabauda (del resto l’acronimo Fiat vuol dire Fabbrica italiana automobili Torino) la sostanza non cambia. E soprattutto sono le cronache e la storia a dimostrare e confermare il rilevante intreccio che sempre c’è stato tra le vicende di Torino (Fiat) e quelle del Paese (politica e classe dirigente).
In questi giorni il precipitare delle condizioni di salute dell’amministratore delegato di quella che oggi si chiama Fca ha fatto sì che si parlasse molto della Fiat soprattutto per elogiare (in molti casi giustamente) la capacità di quell’amministratore delegato che è riuscito a salvare, sfidando e utilizzando le occasioni della globalizzazione e sacrificando buona parte del suo ancoraggio torinese e italiano, quella che ai più (mercati compresi) era percepita come un’azienda praticamente fallita.
Ma c’è stata una Fiat anche prima dell’arrivo di Marchionne. Un’azienda, un’impresa in grado di condizionare nel bene e nel male non soltanto le relazioni industriali, ma soprattutto lo sviluppo economico dell’Italia. Ed è stata quella la Fiat dei Valletta dei Gianni e Umberto Agnelli, e, aggiungerei, dei Cesare Romiti.
Cominciamo dai tempi di Valletta. E’ una Fiat fortemente “Torino centrica“: mentre Adriano Olivetti si spinge nel Mezzogiorno portando fabbriche a Pozzuoli e Marcianise la Fiat resta ancorata al Nord, e se deve fare nuovi stabilimenti preferisce farli a ridosso del capoluogo piemontese a cominciare da Rivalta torinese. Sono anni di grande migrazione interna: la fanterie del lavoro del Mezzogiorno prendono i treni per andare a cercare lavoro nel Nord. I “terroni” si spostano in città che non li accolgono bene. A Torino ci sono cartelli che recitano: “non si affitta ai meridionali“. E qualcosa ce l’ha raccontata anche il cinema del neorealismo con film del tipo “Rocco e i suoi fratelli“. Nè le cose vanno meglio dal punto di vista delle relazioni industriali. Sono gli anni degli accordi sindacali separati e, persino, della schedature degli operai comunisti. Attenzione, però, sarebbe un errore liquidare il mondo che c’è attorno alla Fiat di Valletta come reazionario e basta. Qualcosa si muove a Torino. Per esempio “La Stampa“, il giornale di azienda e di famiglia, è tra i grandi giornali italiani, l’unico a guardare con attenzione, talvolta con prudente benevolenza ai primi tentativi di apertura a sinistra (possibilmente non oltre i socialdemocratici di Saragat) della politica italiana. Intanto gli operai venuti dal Sud cominciano ad integrarsi, nella grande fabbrica scoprono il sindacato e molti di loro tifano e tiferanno Juventus.
Si arriva così all’era Agnelli, all’avvocato che guida la Fiat, avendo un buon rapporto con i governi e con la politica e riuscendo, così, anche negli anni delle grandi lotte operaie dell’autunno caldo a mandare avanti, con un po’ di consociativismo, la realtà e, soprattutto, l’immagine della Fiat. Da presidente della Confindustria farà pure l’accordo sulla scala mobile con Lama e Cgil, Cisl, Uil, facendo arrabbiare non poco il leader repubblicano Ugo La Malfa. Con i sindacati il rapporto è all’insegna del fair play. Lama, che è tifoso juventino, racconterà che quando si trova per impegni sindacali in una città dove quella domenica gioca la squadra bianconera, l’avvocato gli manda in albergo per portargli il suo saluto un suo calciatore, una volta financo Platini.
Ma, intanto, le tensioni sociali nel Paese crescono, dall’autunno caldo e dalle rivolte studentesche arrivano segnali di scontri, talvolta di violenze, comincia a organizzarsi anche il terrorismo. E si arriva così alla viglia degli anni 80. A Torino è arrivato un nuovo amministratore delegato Cesare Romiti. Negli stabilimenti Fiat il rapporto con i sindacati è messo a dura prova. Le organizzazioni estremiste fanno proseliti. E, intanto, cresce anche l’assenteismo. Si arriva così al processo dei 61d ipendenti Fiat che si sono resi responsabili di episodi di violenza. Lama con coraggio parla agli operai per difendere i quadri intermedi. “Anche i capi sono operai“, scandisce dinanzi ad un uditorio per nulla consenziente. Intanto i conti aziendali non vanno bene. Partono prima i licenziamenti, poi la cassa integrazione. E inizia la vertenza dei 35 giorni dell’ottobre 1980: picchetti ai cancelli di Mirafiori, blocco delle merci in entrata e in uscita. Ma il sindacato si è sopravvalutato. Alla fine perderà e dopo 35 giorni, e la prova di forza della marcia dei quarantamila, accetterà un accordo lacrime e sangue con tanta cassa integrazione e scarsissime garanzie per rientri o riallocazione dei lavoratori.
Alla fine le cose non andranno bene per nessuno: anche i quadri intermedi, quelli della sfilata, saranno messi ai margini dell’azienda e presto ne usciranno. Nè la crisi dell’auto risparmierà la Fiat del dopo Romiti. Tant’è che, dopo un succedersi di non sempre adeguati capi azienda, servirà la cura Marchionne e la creazione di un nuovo gruppo tanto dentro la globalizzazione quanto sempre meno italiano o torinese che dir si voglia.
Eppure qualche merito la Fiat di Agnelli e Romiti può e deve rivendicarlo. Proprio Romiti, in una trasmissione televisiva ebbe a dire, schernendo chi con bullismo e prosopopea degna di miglior causa si vantava di non sentire mai i sindacati: “Io li sentivo sempre, anche nei giorni nei quali mi avevano occupato le fabbriche“. Ecco. C’è da chiedersi: se quell’esile filo che teneva insieme la possibilità che in ogni caso, in ogni momento, consentiva a forze sociali contrapposte di confrontarsi, sarebbe stato possibile negli anni ’80 sconfiggere il terrorismo? E di questo credo i protagonisti delle relazioni industriali e sociali di quegli anni possono menarne vanto. Con buona pace di coloro che dicono: era solo consociativismo.
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Foto in evidenza: La storica stretta di mano tra Luciano Lama e Gianni Agnelli
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Guido Compagna
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