Il Rapporto Istat pubblicato il 7 Dicembre, riferito al “Mercato del lavoro” (1), riporta dati sull’occupazione relativi al 3° trimestre 2017: come al solito, esso viene tirato da una parte o dall’altra, a seconda delle tesi che chi ne parla preferisce privilegiare. Si legge, ad esempio, che il Presidente Gentiloni ha dichiarato che «Anche oggi l’Istat ha registrato dei dati positivi in termini di occupazione… Negli ultimi 9 mesi abbiamo accumulato altri 300.000 posti di lavoro», anche se poi ha aggiunto che «la qualità dei posti lavoro è sempre esposta alla precarietà». Per giudicare quanto espresso dal Capo del Governo è sufficiente riportare ed esaminare alcuni dei dati che sono oggetto del citato Rapporto.
Osserviamo anzitutto che esso esordisce dicendo che «Nel terzo trimestre del 2017 l’economia italiana ha registrato una crescita del PIL dello 0,4% in termini congiunturali e dell’1,7% su base annua. Nel complesso, l’economia dei paesi dell’area Euro è cresciuta dello 0,6% rispetto al trimestre precedente e del 2,5% nel confronto con lo stesso trimestre del 2016»: salta subito all’occhio che, ancora una volta, l’Italia non riesce a cogliere appieno le opportunità offerte dal contesto economico generale, dato che i suoi indicatori positivi sono inferiori di un terzo (0,4% contro 0,6%, 1,7% contro 2,5%) a quanto mediamente registrato dagli altri Paesi dell’UE (“mediamente” vuol dire che ci sono singoli Paesi di quell’area, alla quale apparteniamo, che fanno ancora meglio, e, quindi, il distacco italiano in alcuni casi è ancora più grande di un terzo). Ci sarà pure una ragione per cui l’Italia continua a rappresentare il fanalino di coda dei Paesi “in crescita“: non per colpa di un destino cinico, certamente, ma come conseguenza delle politiche adottate, che corrispondono a scelte precise ed i cui responsabili hanno un’identità definita e nota.
Sul piano dell’occupazione, il Rapporto evidenzia (Prospetto 1, pag.2. Il Prospetto 3 presenta dati “non destagionalizzati“, leggermente diversi) che il numero di “occupati” dipendenti ammonta a 17.755.000 unità, delle quali 14.971.000 (quindi l’84,3%) sono “permanenti” e 2.784.000 (perciò il 15,7%) sono cosiddetti “a termine” (definizione generica e perciò non valutabile, perché il termine può variare da gioni a settimane a mesi).
Notiamo subito che il Rapporto non parla di “posti di lavoro“, ma di “occupati“: la differenza non è soltanto terminologica ma di sostanza, perché “posto di lavoro” corrisponde, nell’accezione comune, ad un impegno lavorativo a tempo pieno, laddove la definizione di “occupato” viene attribuita (vedere Glossario, pag. 20 del Rapporto) a “persone di 15 anni e più che nella settimana di riferimento hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che prevede un corrispettivo monetario o in natura o hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente“: basta, quindi, anche solo un’ora di lavoro (e perfino non retribuita!), per entrare nella categoria privilegiata degli “occupati“. Sembra farsesco, ma così è fatta la statistica dell’occupazione. Quindi, fa male il Presidente Gentiloni, e tutti coloro che fanno altrettranto (e sono molti), a parlare di “posti di lavoro“: sa di imbroglio, perché gli “occupati” sono u’altra cosa, una cosa spesso molto più modesta, quando non addirittura economicamente misera.
Ritornando alla ripartizione fra “permanenti” ed “a termine“, si deve dolorosamente rilevare che il “mix” fra gli uni e gli altri (84,3/15,7) è in peggioramento, perché i secondi sono in continua crescita, e questo rappresenta (ovviamente) un aumento della precarietà: infatti, riportando in grafico i dati Istat fra il 1993 (quando il rapporto era circa 89/11) ed oggi si può vedere che la curva dei “permanenti” è continuamente discendente, quella degli “a termine” è continuamente ascendente. Non è un bel risultato, sul piano sociale, perché aumenta l’incertezza – ma anche l’angoscia – degli individui e frena l’economia. Quindi, non solo «la qualità dei posti lavoro è sempre esposta alla precarietà», come ha detto Gentiloni: la “cattiva notizia” è che la precarietà aumenta sempre più. Bisogna farla smettere.
Va poi osservato che al numero di “occupati” citato si aggiungono 2.909.000 “disoccupati” (cioè persone – vedere Glossario – che “hanno effettuato almeno un’azione di ricerca di lavoro nelle quattro settimane che precedono la settimana di riferimento e sono disponibili a lavorare“) e 13.326.000 “inattivi” (sempre dal Glossario, “le persone non classificate come occupate o in cerca di occupazione“, cioè coloro che non hanno un lavoro e non lo cercano, in molti casi perché non hanno nemmeno più la speranza di trovarlo): fanno, complessivamente, 16.235.000 persone – circa il 42% di tutti quelli che hanno fra 15 e 64 anni – che non lavorano e che perciò non dispongono di alcun reddito da lavoro (anche da questo discendono le agghiaccianti statistiche della Caritas e dello stesso Istat sulla povertà e sull’esclusione sociale: e non bastano certo le tisane leggere, pur benvenute, del “Reddito di inclusione” a dare un contributo significativo alla riduzione del problema).
Un’ultima considerazione, fra le molte altre che si potrebbero fare: dal Prospetto 3 a pag. 6 (vedi tabella sopra) si rileva che nell’ultimo anno gli “occupati” lavoratori dipendenti sono aumentati di 402.000 unità, mentre gli “indipendenti” marcano una riduzione di 99.000 unità (ma nella fascia di età 35-49 anni, quella socialmente più importante, si lamenta una perdita di 122.000 unità); di quei 402.000, solo 60.000 sono “permanenti” (il 15%) e 342.000 sono “a termine” (l’85%); fra questi ultimi, 196.000 sono stati “a tempo pieno” (il 57% circa), gli altri 146.000 “a tempo parziale” (circa il 43%: ed anche questo è un termine del tutto generico, perché può variare molto ampiamente), che vuol dire che i più precari fra i precari hanno rappresentato il 36% dei nuovi “occupati” (146.000/402.000).
Cos’altro ci vuole per ammettere, una volta per tutte e per sempre, che il Jobs Act (che è costato un’enormità alle casse dello Stato, assorbendo risorse che potevano avere ben altro e più produttivo impiego: il calcolo definitivo del suo costo potrà essere fatto alla scadenza definitiva, ma è stato già valutato da un minimo di 15 miliardi fino a 23 miliardi) è stato un vero fallimento, dato che il lavoro precario non solo non è diminuito, ma è di molto aumentato? E che perciò è indispensabile adottare nuove e del tutto diverse “politiche del lavoro“, come si legge nella “nuova proposta” presentata come bozza programmatica da “Liberi e uguali“, che si propone di realizzare, e ne indica le linee-guida, “Uno sviluppo sostenibile e più forte. Il lavoro al centro“? Di questi argomenti reali è opportuno e doveroso discutere, senza “trucchi“.
Mercato del lavoro (rapporto Istat): l’Italia sempre in affanno. Occorre una “nuova proposta”
Il Rapporto Istat pubblicato il 7 Dicembre, riferito al “Mercato del lavoro” (1), riporta dati sull’occupazione relativi al 3° trimestre 2017: come al solito, esso viene tirato da una parte o dall’altra, a seconda delle tesi che chi ne parla preferisce privilegiare. Si legge, ad esempio, che il Presidente Gentiloni ha dichiarato che «Anche oggi l’Istat ha registrato dei dati positivi in termini di occupazione… Negli ultimi 9 mesi abbiamo accumulato altri 300.000 posti di lavoro», anche se poi ha aggiunto che «la qualità dei posti lavoro è sempre esposta alla precarietà». Per giudicare quanto espresso dal Capo del Governo è sufficiente riportare ed esaminare alcuni dei dati che sono oggetto del citato Rapporto.
Osserviamo anzitutto che esso esordisce dicendo che «Nel terzo trimestre del 2017 l’economia italiana ha registrato una crescita del PIL dello 0,4% in termini congiunturali e dell’1,7% su base annua. Nel complesso, l’economia dei paesi dell’area Euro è cresciuta dello 0,6% rispetto al trimestre precedente e del 2,5% nel confronto con lo stesso trimestre del 2016»: salta subito all’occhio che, ancora una volta, l’Italia non riesce a cogliere appieno le opportunità offerte dal contesto economico generale, dato che i suoi indicatori positivi sono inferiori di un terzo (0,4% contro 0,6%, 1,7% contro 2,5%) a quanto mediamente registrato dagli altri Paesi dell’UE (“mediamente” vuol dire che ci sono singoli Paesi di quell’area, alla quale apparteniamo, che fanno ancora meglio, e, quindi, il distacco italiano in alcuni casi è ancora più grande di un terzo). Ci sarà pure una ragione per cui l’Italia continua a rappresentare il fanalino di coda dei Paesi “in crescita“: non per colpa di un destino cinico, certamente, ma come conseguenza delle politiche adottate, che corrispondono a scelte precise ed i cui responsabili hanno un’identità definita e nota.
Sul piano dell’occupazione, il Rapporto evidenzia (Prospetto 1, pag.2. Il Prospetto 3 presenta dati “non destagionalizzati“, leggermente diversi) che il numero di “occupati” dipendenti ammonta a 17.755.000 unità, delle quali 14.971.000 (quindi l’84,3%) sono “permanenti” e 2.784.000 (perciò il 15,7%) sono cosiddetti “a termine” (definizione generica e perciò non valutabile, perché il termine può variare da gioni a settimane a mesi).
Notiamo subito che il Rapporto non parla di “posti di lavoro“, ma di “occupati“: la differenza non è soltanto terminologica ma di sostanza, perché “posto di lavoro” corrisponde, nell’accezione comune, ad un impegno lavorativo a tempo pieno, laddove la definizione di “occupato” viene attribuita (vedere Glossario, pag. 20 del Rapporto) a “persone di 15 anni e più che nella settimana di riferimento hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che prevede un corrispettivo monetario o in natura o hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente“: basta, quindi, anche solo un’ora di lavoro (e perfino non retribuita!), per entrare nella categoria privilegiata degli “occupati“. Sembra farsesco, ma così è fatta la statistica dell’occupazione. Quindi, fa male il Presidente Gentiloni, e tutti coloro che fanno altrettranto (e sono molti), a parlare di “posti di lavoro“: sa di imbroglio, perché gli “occupati” sono u’altra cosa, una cosa spesso molto più modesta, quando non addirittura economicamente misera.
Ritornando alla ripartizione fra “permanenti” ed “a termine“, si deve dolorosamente rilevare che il “mix” fra gli uni e gli altri (84,3/15,7) è in peggioramento, perché i secondi sono in continua crescita, e questo rappresenta (ovviamente) un aumento della precarietà: infatti, riportando in grafico i dati Istat fra il 1993 (quando il rapporto era circa 89/11) ed oggi si può vedere che la curva dei “permanenti” è continuamente discendente, quella degli “a termine” è continuamente ascendente. Non è un bel risultato, sul piano sociale, perché aumenta l’incertezza – ma anche l’angoscia – degli individui e frena l’economia. Quindi, non solo «la qualità dei posti lavoro è sempre esposta alla precarietà», come ha detto Gentiloni: la “cattiva notizia” è che la precarietà aumenta sempre più. Bisogna farla smettere.
Va poi osservato che al numero di “occupati” citato si aggiungono 2.909.000 “disoccupati” (cioè persone – vedere Glossario – che “hanno effettuato almeno un’azione di ricerca di lavoro nelle quattro settimane che precedono la settimana di riferimento e sono disponibili a lavorare“) e 13.326.000 “inattivi” (sempre dal Glossario, “le persone non classificate come occupate o in cerca di occupazione“, cioè coloro che non hanno un lavoro e non lo cercano, in molti casi perché non hanno nemmeno più la speranza di trovarlo): fanno, complessivamente, 16.235.000 persone – circa il 42% di tutti quelli che hanno fra 15 e 64 anni – che non lavorano e che perciò non dispongono di alcun reddito da lavoro (anche da questo discendono le agghiaccianti statistiche della Caritas e dello stesso Istat sulla povertà e sull’esclusione sociale: e non bastano certo le tisane leggere, pur benvenute, del “Reddito di inclusione” a dare un contributo significativo alla riduzione del problema).
Un’ultima considerazione, fra le molte altre che si potrebbero fare: dal Prospetto 3 a pag. 6 (vedi tabella sopra) si rileva che nell’ultimo anno gli “occupati” lavoratori dipendenti sono aumentati di 402.000 unità, mentre gli “indipendenti” marcano una riduzione di 99.000 unità (ma nella fascia di età 35-49 anni, quella socialmente più importante, si lamenta una perdita di 122.000 unità); di quei 402.000, solo 60.000 sono “permanenti” (il 15%) e 342.000 sono “a termine” (l’85%); fra questi ultimi, 196.000 sono stati “a tempo pieno” (il 57% circa), gli altri 146.000 “a tempo parziale” (circa il 43%: ed anche questo è un termine del tutto generico, perché può variare molto ampiamente), che vuol dire che i più precari fra i precari hanno rappresentato il 36% dei nuovi “occupati” (146.000/402.000).
Cos’altro ci vuole per ammettere, una volta per tutte e per sempre, che il Jobs Act (che è costato un’enormità alle casse dello Stato, assorbendo risorse che potevano avere ben altro e più produttivo impiego: il calcolo definitivo del suo costo potrà essere fatto alla scadenza definitiva, ma è stato già valutato da un minimo di 15 miliardi fino a 23 miliardi) è stato un vero fallimento, dato che il lavoro precario non solo non è diminuito, ma è di molto aumentato? E che perciò è indispensabile adottare nuove e del tutto diverse “politiche del lavoro“, come si legge nella “nuova proposta” presentata come bozza programmatica da “Liberi e uguali“, che si propone di realizzare, e ne indica le linee-guida, “Uno sviluppo sostenibile e più forte. Il lavoro al centro“? Di questi argomenti reali è opportuno e doveroso discutere, senza “trucchi“.
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(1) http://www.istat.it/it/files/2017/12/Mercato-del-lavoro-III-trim-2017.pdf?title=Il+mercato+del+lavoro+-+07%2Fdic%2F2017+-+Testo+integrale+e+nota+metodologica.pdf
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Franco Bianco
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