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Occupazione e disoccupazione: Per una lettura corretta dei dati Istat

L’incipit dei due ultimi comunicati stampa dell’ISTAT sull’occupazione e disoccupazione in Italia sono di per sé esplicativi di come si debbano leggere le statistiche congiunturali:

Comunicato del 3 luglio: “A maggio 2017 la stima degli occupati cala dello 0,2% rispetto ad aprile (-51 mila unità)…

Comunicato del 31 luglio: “A giugno 2017 la stima degli occupati cresce dello 0,1% rispetto a maggio (+23 mila)…

Si potrebbe continuare:

Comunicato del 3 luglio: “Dopo il forte calo registrato ad aprile, la stima delle persone in cerca di occupazione a maggio cresce dell’1,5% (+44 mila)…

Comunicato del 31 luglio: “Dopo l’incremento rilevato a maggio, la stima delle persone in cerca di occupazione a giugno cala del 2% (-57 mila)…

Viene a mente la vecchia barzelletta: “guarda se funzionano le frecce” chiede l’autista; “ora si … ora no” risponde l’altro.

Rispetto a questi dati occorre evitare di avventurarci in interpretazioni azzardate che vengono poi regolarmente smentite il mese successivo.

L’occupazione cala per colpa di cattive riforme qualcuno poteva dire il 3 luglio; l’occupazione cresce per merito delle riforme si direbbe, invece, oggi. Forse la lettura più corretta è che la successione di interventi del governo ha certamente avuto effetti favorendo ora il ricorso ai tempi indeterminati, ora quello ai tempi determinati, oppure ha spinto in un certo periodo all’esteso ricorso ai voucher; ma sull’ammontare complessivo di lavoro occupato gli effetti siano stati praticamente nulli: l’idea stessa che i problemi del mercato del lavoro si risolvano solo con politiche dal lato dell’offerta – di regolamentazione cioè del mercato del lavoro – non convince, nonostante il fatto che il mantra delle riforme sia ancora oggi dominante. Mancano politiche dal lato della domanda senza le quali il monte di lavoro richiesto dal sistema non aumenterà.

Al di là dei problemi di natura statistica presenti nei dati (rilevazione campionaria con ampio margine di errore; stagionalità; la stessa definizione di occupato e disoccupato) la lettura dei dati mensili rischia di distrarci dalla vera interpretazione del fenomeno occupazionale, della sua tendenza di fondo. Solo allungando un po’ lo sguardo riusciamo a liberarci delle oscillazioni che si alternano mensilmente e possiamo provare a fornire una valutazione un po’ più stabile del fenomeno occupazionale.

Innanzitutto dopo una crisi così lunga e profonda non si può non interpretare positivamente che vi siano segnali di risveglio del mercato del lavoro; ma allo stesso tempo non si possono enfatizzare troppo i risultati per non correre il rischio di pensare che i problemi siano superati – o in fase di superamento – allentando l’attenzione sul fronte del lavoro.

Vi sono ancora oggi problemi rilevanti da superare sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo.

Dal primo punto di vista occorre, infatti, ricordare che se è vero che abbiamo perso dall’inizio della crisi “solo” poco più di mezzo milione di occupati è anche vero che in termini di unità di lavoro (tenendo conto cioè anche dell’orario di lavoro) la caduta è stata più che doppia; se poi si tenesse conto di quanto sarebbe accaduto se avessimo proseguito nel trend precedente si arriverebbe a 3 milioni di posti di lavoro che mancano (e che, guarda caso, corrispondono alla distanza rispetto all’obiettivo posto per l’Italia da Europa2020).

Inoltre anche la retribuzione oraria si è ridotta, per cui associando questo fatto alla riduzione di orario di lavoro (spesso indesiderato) si comprende ancora meglio il peggioramento delle condizioni di vita di molti lavoratori e l’affermarsi del fenomeno dei cosiddetti working poors.

Ciò ci dovrebbe spingere d’ora in poi, nel commentare i dati sul mercato del lavoro, ad affiancarli anche con queste valutazioni collaterali su orari e remunerazioni, perché non è la stessa cosa se l’occupazione aumenta a parità di orario (o con riduzioni condivise) e con aumenti retributivi corrispondenti ad aumenti di produttività (che dovrebbe essere la regola normale) o se, invece, ciò avviene con riduzione indesiderata di orario e di retribuzione (come sta invece avvenendo).

Confermiamo, pertanto, la nostra interpretazione sulla via seguita dal paese per uscire dalla lunga fase recessiva trascorsa. Non con un rilancio degli investimenti volto a recuperare competitività, ma con un maggiore sfruttamento del fattore lavoro, con una forma quindi di competitività di costo che non è certamente propria per un paese ad elevato livello di sviluppo come vorrebbe essere il nostro.

Di fatto, i due fattori produttivi classici (capitale e lavoro), non solo si sono quantitativamente ridotti in questi anni, ma sono entrambi anche invecchiati (da sottolineare come l’occupazione sia aumentata nelle classi più anziane per il solo effetto di invecchiamento dei lavoratori presenti).

Per questo la questione del rilancio degli investimenti e dell’occupazione giovanile sono centrali non solo per aumentare la quantità dei fattori produttivi impiegati e quindi la capacità produttiva del sistema ma anche per ammodernarli; su questo fronte non si vedono ad oggi segnali confortanti di miglioramento.

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