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Paul Mason: Il neoliberismo è finito. Appunti per una sinistra radicale e di governo

Traduzione dell’articolo di Paul Mason pubblicato sul New Statesman con il titolo “The European centre-left keeps losing because neoliberalism is broken” (7 novembre 2017).

Il 13 ottobre scorso, Lloyd Blankfein, l’AD della Goldman Sachs, ha twittato: “Sono al Fondo Monetario Internazionale di Washington. Mi chiedo perché la politica sia ovunque così complicata, mentre le economie globali vanno (in gran parte) bene e il mondo vive (in gran parte) in condizione di pace”.

Ecco la mia risposta: il neoliberismo ha fallito.

Con neoliberismo non intendo semplicemente le idee di Friedrich Hayek e Milton Friedman – la loro ideologia non ha mai descritto il sistema creato da Margaret Thatcher, Ronald Reagan, Boris Yeltsin e Deng Xiaoping. Parlo piuttosto del sistema economico globale che ha trainato la crescita e il progresso tecnologico fra il 1989 e il 2008 ma adesso ha smesso di farlo.

Per me, “neoliberismo” descrive il sistema nella sua totalità […]. Quando funzionava, portò a uno squilibrio globale. […]

Come hanno scritto gli economisti Anton Brender e Florence Pisani nel 2010, l’unica cosa che avrebbe potuto riportare l’equilibrio nel mondo era la crisi finanziaria del 2008. Da allora, il neoliberismo viene tenuto in vita artificialmente, sotto forma di 15 trilioni di quantitative easing. Puoi tenere in vita artificialmente un’economia per molto tempo, ma non puoi fare lo stesso con un’ideologia. Il cervello umano richiede coerenza.

Per molti cittadini dei paesi sviluppati, non esiste un racconto coerente su come le loro vite miglioreranno. Sanno che i loro figli saranno più poveri e vedono un’élite […] che proprio non comprende la situazione. E vedere questa élite diventare sempre più ricca e continuare a non comprendere la situazione è molto peggio rispetto a essere semplicemente poveri.

Nel 2015, la Bank of England ha pubblicato un’analisi sulle cause della crescita globale, passata e futura. Questa ricerca rivela che fra il 1980 e il 2015 – l’intero periodo della globalizzazione neoliberista – la crescita è rimasta più o meno la stessa, ma è cambiato ciò che la muoveva.

(Bank of England | dall’articolo)

Nel periodo di boom del neoliberismo, prima del 2000, buona parte della crescita era causata dall’aumento della forza lavoro […] (in blu nel grafico). Ma c’era anche crescita nella produttività (in giallo), derivata da una migliore istruzione e dai cambiamenti tecnologici.

Dopo il 2000, buona parte della crescita è stata “di recupero”, mentre i paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), soprattutto la Cina, entravano davvero nel mercato globale. Ma guardiamo la linea nera per quanto riguarda il futuro. Se gli economisti della Bank of England hanno ragione, ci sarà meno crescita nel futuro che negli ultimi 40 anni. E molta di questa sarà crescita “di recupero”. E non sarà mossa dai cambiamenti tecnologici. […]

Nel mio libro del 2015, PostCapitalismo, sostenevo che ci troviamo di fronte a una scelta: abbandonare il neoliberismo oppure questo distruggerà la globalizzazione. Questo è ciò che sta accadendo. Il punto non è solo che assistiamo a movimenti xenofobi, misoginia violenta e razzismo; ma che abbiamo parti delle élite economiche pronte a utilizzare quei movimenti e quei sentimenti per ottenere potere politico. Donald Trump, Alternative für Deutschland (AfD), Marine Le Pen, lo Ukip e il Partito della Libertà austriaco (FPÖ) mostrano tutti le caratteristiche fondamentali che Hannah Arendt descriveva nel suo libro Le origini del totalitarismo (1951): sono un’alleanza fra le “élite e le folle”.

Nonostante non siano, nella maggior parte dei casi, partiti fascisti nel senso classico, stanno avendo successo per via di quei fattori che il sociologo tedesco Erich Fromm osservò negli anni ’30 del ‘900: stanchezza, combinata con la solitudine e con l’esaurimento e il fallimento della sinistra.

Ciò su cui i partiti di estrema destra e conservatori stanno convergendo non è un ritorno al capitalismo nello stato-nazione dell’era Keynesiana. Se si ascoltano Donald Trump, il deputato di destra dei Tory, Jacob Rees-Mogg, e l’AfD, il progetto è un neoliberismo nazionale.

Non funzionerà. […]

Cosa possiamo fare?

Innanzitutto dobbiamo dire chiaramente: il neoliberismo è finito. […]

La prima promessa di una socialdemocrazia radicale dovrebbe essere: fermeremo le privatizzazioni.

La seconda […]: finiremo di imporre […] le dinamiche del mercato nelle vite delle persone e promuoveremo l’istinto umano e collaborativo che 30 anni di neoliberismo hanno soppresso.

Per fare questo, abbiamo bisogno di un modello economico alternativo, di un discorso di speranza, di un movimento sociale che si batta per questo e di strutture di partito che permettano a tutto questo di funzionare, piuttosto che intralciarlo.

(Jeremy Corbyn presenta il manifesto del Labour. Foto: PA Images / Alamy Stock Photo)

Lo scorso maggio, le persone hanno spontaneamente trasformato il nome di Jeremy Corbyn in un coro da stadio. 12,9 milioni di persone hanno votato il Labour alle elezioni generali di giugno perché il partito offriva le prime due cose: una chiara alternativa politica al neoliberismo e un discorso di speranza.

Ero contrario alla strategia della Terza Via negli anni ’90, ma riconosco che i governi Blair e Brown hanno portato a progressi reali per quanto riguarda la giustizia sociale. La strategia della Terza Via aveva era logica se uno era convinto che il neoliberismo fosse destinato a durare per sempre. Il problema che abbiamo dovuto affrontare dal 2010 è: cosa fare adesso che il neoliberismo ha fallito?

Per cinque anni, sotto Ed Miliband, abbiamo provato a evitare il problema. Tuttavia, nel frattempo, l’alleanza tribale che componeva la socialdemocrazia britannica veniva fatta a pezzi: dal nazionalismo progressista in Scozia, dalla xenofobia dello Ukip in Inghilterra e in parti del Galles […].

[…] Molte persone si sentivano alienate dal nostro linguaggio politico ed erano preoccupate in maniera viscerale dell’impatto delle migrazioni europee sui servizi pubblici. Perciò, quando […] gli è stato detto che avrebbero potuto ridurre l’immigrazione solo lasciando l’Unione Europea, 17,4 milioni hanno votato Leave.

Anche prima della Brexit, era chiaro che solo una cosa sarebbe stata in grado di ricomporre questa alleanza socialdemocratica: il radicalismo economico e la visione di un nuovo tipo di capitalismo oltre il neoliberismo. Ecco perché, quando Jeremy Corbyn si è candidato a diventare il leader del Labour nel 2015, decine di migliaia di persone si sono iscritte al partito per votarlo. Ecco perché, quando nel 2016 la gerarchia del partito, la maggioranza dei deputati laburisti e i media britannici hanno provato a destituirlo, più di 180.000 persone si sono iscritte al Labour per difenderlo.

La strada che va dal conquistare la leadership del partito al distruggere la maggioranza parlamentare di Theresa May non è stata semplice. Corbyn ha fatto degli errori. Il suo staff era senza esperienza e a volte veniva fatto apparire come incompetente dai suoi nemici. […]

Nel giugno 2017, quasi 13 milioni di persone sono intervenute nel nostro dibattito interno e ci hanno detto che gli piaceva l’idea di un governo radicale e socialdemocratico e di una “soft Brexit”. Sono stati un paio di fattori a cambiare le cose.

Primo, c’è stato il manifesto del Labour. Nel mometo in cui è stato fatto trapelare, le folle attorno a Corbyn hanno iniziato a essere reali, caotiche e spontanee. Proponendo una stretta regola fiscale – fare debito solo per fare investimenti – il Labour è stato capace di promettere due cose: un programma di investimenti da 250 miliardi di sterline e recuperare 49 miliardi alzando le tasse per uscire dall’austerità.

Mi è stato raccontato dai militanti laburisti impegnati nella campagna elettorale del giugno scorso che in più di una roccaforte dello Ukip membri attivi di questo partito uscivano di casa e chiedevano poster del Labour. Il manifesto era tutto ciò di cui avevamo bisogno”, dicevano. Avevano solo bisogno che il partito laburista dicesse che avrebbe iniziato a fare gli interessi delle comunità, non dei ricchi.

Secondo, abbiamo sviluppato un discorso che andava oltre le politiche da proporre: questo è l’unico modo portare la percentuale di voti fra i giovani al 64% in un solo colpo. […] E nelle ultime settimane di campagna elettorale, seguendo il consiglio dei nostri amici di Podemos, abbiamo organizzato “la Remontada”. […]

Terzo, abbiamo sviluppato una forma organizzativa che andava di pari passo con la velocissima società civile online. Bisogna ricordare che Jeremy Corbyn non era pienamente in controllo dell’esecutivo nazionale del Labour o della sede nazionale del partito. Quindi abbiamo utilizzato il gruppo di pressione pro-Corbyn, Momentum, per fare quello che al quartier generale del partito non volevano fare: campagna elettorale nei collegi da conquistare e non solo in quelli da difendere. Abbiamo mandato persone in collegi in cui, in alcuni casi, venivano allontanate dai dirigenti locali, perché quel seggio era considerato “impossibile da conquistare”. E invece li abbiamo conquistati. Abbiamo prodotto, con poche centinaia di sterline, video satirici che nessun partito avrebbe mai ufficialmente approvato. Uno di questi […] ha ricevuto 8 milioni di visualizzazioni.

(Antonio Gramsci pop)

Non abbiamo vinto. Dovevamo spingerci oltre nel formare un movimento sociale che potesse creare – come disse Antonio Gramsci – un’egemonia culturale nella società. Bisogna essere sinceri: quello che è accaduto in Gran Bretagna è stato possibile perché le forze politiche che solitamente stanno nei partiti della sinistra europea erano già nel Labour. In Portogallo, una cosa simile è stato ottenuta tramite una coalizione. Altrove, potrebbe non essere possibile.

Tuttavia, abbiamo imparato abbastanza da poter offrire qualche consiglio.

Siate radicali. Dobbiamo proporre un’alternativa economica, chiara e plausibile, al neoliberismo. Mettere fine all’austerità. Regolare il mercato del lavoro e difendere gli interessi dei lavoratori. Costruire nuove case, su larghissima scala, per i giovani. Usare l’intervento di Stato per promuovere un settore privato innovativo e con impieghi ben retribuiti. Preservare, modernizzare e ampliare lo Stato sociale.

Oltre a questo, dobbiamo fornire delle risposte concrete alla sfida dell’automazione e del lavoro precario. Il reddito di base potrebbe essere difficile da implementare su larga scala, ma dovremmo iniziare a ponderarlo come soluzione – il Labour si è preso questo impegno.

Ugualmente efficace può essere la fornitura da parte dello Stato di beni di prima necessità e servizi – a basso costo o gratuitamente. La socialdemocrazia del Ventunesimo secolo non può essere – come ha detto il filosofo sociale André Gorz del Marxismo – una utopia basata sul lavoro.

In un mondo in cui le persone non hanno potere, non hanno sicurezza e sperimentano l’atomizzazione della società, progetti collaborativi su piccola scala – le cooperative di credito, gli orti sociali, le cooperative di lavoratori, i banchi alimentari – acquisiscono molta più importanza. Come con il socialismo di Ferdinand Lassalle nella Germania degli anni ’60 dell’800, questi progetti permettono alle persone di ottenere, oggi, cose che forniscono un collegamento con ciò che sarà fatto domani. […]

Per quanto riguarda la globalizzazione, per salvarla, dobbiamo averne meno. Mettere fine alla tirannia degli accordi commerciali sulla giustizia sociale. Se il neoliberismo ha fallito, la socialdemocrazia non può accettare il Trattato di Lisbona come la forma definitiva dell’Unione Europea. […]

(Margaret Thatcher: “Non c’è alternativa”)

Il libro bianco sul futuro dell’Europa di Jean-Claude Juncker offre ai partiti socialdemocratici l’opportunità di formulare un’alternativa – un’Europa della giustizia sociale, dove le zone a basso reddito e il dumping sociale sono vietati. Se alcuni paesi non vogliono stare in quell’Europa, possono andare a un passo più lento.

La chiave è spegnere il Trattato di Lisbona che si trova nelle vostre teste. Le sfide più difficili saranno l’immigrazione e l’accoglienza. […] La risposta non è chiudere i confini dell’Europa. […] La risposta è di rinconquistare il consenso delle persone riprendendo il controllo dell’immigrazione, di gestire il mercato del lavoro attivamente, di offrire accoglienza in maniera equa, di uniformare verso l’alto i salari minimi e i sussidi sociali in tutta Europa.

Soprattutto, dobbiamo combattere per un nuovo concetto di cittadinanza europea. In Gran Bretagna, l’ostilità è principalmente contro l’immigrazione dall’Europa dell’Est. Nell’UE a 27 è probabilmente una resistenza all’arrivo di richiedenti asilo da fuori Europa. In entrambi i casi, tuttavia, è difficile difendere l’immigrazione utilizzando il concetto di cittadinanza che l’UE ha adottato, in cui la tua cittadinanza è principalmente economica.

[…] Di base, il nostro problema è che abbiamo permesso la creazione di un’Europa modellata su un sistema economico che non funziona più.

Il neoliberismo, scrive l’economista politico William Davies, è il disincanto della politica per mano dell’economia. Il populismo di destra rende la politica nuovamente attraente attraverso il nazionalismo, il razzismo, la nostalgia e la misoginia. Una socialdemocrazia che vuole essere radicale, invece, deve farlo attraverso la giustizia sociale e un concetto di cittadinanza basato sull’essere umano nel suo complesso – lo zöon politikon (“animale politico”), non l’homo economicus.

(Nell’immagine di copertina: Paul Mason. Foto: The Guardian)

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