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Quando i partiti erano anche cultura politica. L’esperienza di Mondo operaio. “Una rivista per il socialismo”, il bel libro di Giovanni Scirocco

Sono particolarmente grato a Giovanni Scirocco per aver potuto leggere – in giorni nei quali la politica sembra sempre più ridursi a triviali, scollacciati e rumorosi spettacolini su spiagge non particolarmente eleganti – il suo bel libro: “Una rivista per il socialismo Mondo operaio (1957 – 1969)“, edito da Carocci editore. Per me è stato un vero e proprio antidoto alle brutte cronache di degrado civile e politico che arrivavano da Milano Marittima.
Certo sarebbe soltanto un rito consolatorio rifugiarsi in un passato che non c’è più, compromesso da tante devastazioni, ma pur sempre ricco di contenuti ideali e politici. Proprio chi ha a cuore la lezione delle cose, e quindi della storia, sa che la politica deve essere praticata e vissuta nel tempo che ci è dato di vivere, che è quello degli schiamazzi del Lido Papete. Ma ripensare alla stagione presa in esame da Scirocco, quella che va dall’avvio del processo di autonomia socialista, voluta da Pietro Nenni che ebbe il coraggio di rompere e superare gli schemi frontisti ed avviare la più tormentata, ma anche la più concreta stagione del riformismo in Italia, ci aiuta a pensare che forse non tutto è perduto e che la politica, fatta di pensiero politico e non solo di narrazioni propagandistiche potrà anche essere recuperata.

La prima cosa che colpisce nel libro di Scirocco è, appunto, la ricchezza di pensiero politico che animava il dibattito tra i partiti e nei singoli partiti. Soltanto nel Partito Socialista c’erano almeno due riviste culturali importanti: Mondo Operaio il cui punto di riferimento continuativo è stato soprattutto Gaetano Arfè. Ma accanto c’era anche la vecchia e turatiana Critica sociale, di Faravelli e Ugoberto Alfassio Grimaldi. Se, poi, ci riferiamo soltanto a Mondo operaio è ricco il pluralismo delle idee, talvolta in contrasto tra loro, che facevano capo alla rivista. Si pensi che in essa hanno convissuto intellettuali di estrazione liberalsocialista e azionista come Valiani e Garosci, marxisti abbastanza ortodossi come Francesco De Martino, autonomisti di sinistra come Lombardi e, soprattutto, Giolitti, oltre alla sempre decisiva leadership nenniana e a coloro che furono protagonisti della breve stagione dell’unificazione socialista. Ma accanto a loro troviamo anche avanguardie presessantottine come Panzieri e magari Luciano Della Mea.

La storia raccontataci da Scirocco non è una storia di successi politici. E’ una storia anche di risultati mancati. Si pensi proprio all’unificazione e alla costituente socialista pensate da Saragat e, soprattutto, da Nenni, ma poi affidate nel loro svolgersi a De Martino e a Tanassi con il deludente risultato elettorale del 1968 e la successiva scissione. Ma è anche la stagione nella quale si realizzò il primo centro-sinistra (quello di Moro e Nenni), che io credo sia stato il più concreto sforzo riformatore nella storia del dopoguerra italiano: statuto dei lavoratori, riforma sanitaria, scuola media unificata, decentramento regionale. E poi sono gli anni della programmazione economica, del tentativo serio di una politica meridionalista. Tutte riforme che videro in prima linea i principali collaboratori di Mondo operaio: da Antonio Giolitti a Riccardo Lombardi, da Roberto Guiducci a Sandro Petriccione. E di quelle riforme qualcosa è restato, nonostante che si sia (non soltanto da parte delle destre) cercato di ridurne il più possibile impatto e durata, con politiche liberiste, spacciate per rifortmiste.

Il libro di Scirocco si ferma al 1969, all’avvio del sessantotto che mise in difficoltà anche la cultura politica dei socialisti e i partiti nel loro complesso. I quali però, forse anche grazie ai risultati ottenuti dal riformismo anni ’60, furono in grado di resistere ed esistere come punto di aggregazione politica e furono decisivi, nello sconfiggere il terrorismo degli anni di piombo.

Ora è un’altra stagione. I partiti tendono a non essere più tali, anzi tendono a non volersi presentare come tali. Preferiscono dirsi “movimento” e talvolta persino “non partito“. Non hanno strutture organizzative solide. Spesso in loro prevale il senso dell’opportunità, anzi dell’opportunismo, sulle ragioni ideali. Vivono più di narrazioni che di azioni politiche. Mi chiedo che interesse può avere un giovane di buoni studi e di passione per la cosa pubblica (e ce ne sono) ad attrarlo a iscriversi ad una organizzazione politica. Un tempo c’erano le riviste, i partiti, il pensiero politico. Si potrebbe ricominciare di lì. Senza i illusioni e con senso della realtà. Perchè le narrazioni, avulse da quella che Nenni chiamava “la politica delle cose“, non servono.

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