Nel suo discorso la sera delle elezioni britanniche Jeremy Corbyn ha detto che grazie alla campagna del Labour la politica è cambiata.
Da un punto di vista sostanziale il Labour di Corbyn ha archiviato, se mai ce ne fosse ancora bisogno dopo la sconfitta di Clinton negli USA, l’Ulivo mondiale. Il centrosinistra moderato, centrista, compatibilista con le logiche del capitale anteposte a quelle del benessere umano. Nel senso che ha rifiutato i presupposti ideologici dell’Ulivismo mondiale: la post-ideologia, l’adeguarsi ad un sistema economico che aumenta le diseguaglianze, l’idea della sovranità dei mercati, delle privatizzazioni, della politica del rigore e dell’austerità. Ma lo ha fatto senza mai scendere nel velleitarismo o accontentarsi della dimensione protestataria: Corbyn è in parlamento dal 1983, conosce il suo territorio, alla domanda come mai il manifesto del Labour non contenesse tutte le sue proposte ha risposto che in quanto segretario deve saper innanzitutto fare sintesi. Egli, insomma, non rifugge dall’idea del primato della politica. Da questo, dalla chiarezza ideologica e programmatica e dalla capacità di fare organizzazione politica ne è discesa l’opportunità di allargare i consensi del partito e dare un senso alla campagna elettorale: nella proposta e nelle pratiche.
La campagna del Labour ha messo in campo un soggetto politico forte che ha saputo egemonizzare il dibattito pubblico (eclatante il caso del dibattito post-attentati nel qual Corbyn ha ribadito l’esigenza di rafforzare le forze dell’ordine combattendo le politiche di austerity dei conservatori che minano la sicurezza del paese), con una visione di medio periodo ma la capacità di governare o fare opposizione nel breve, lontano dai civismi di maniera, dall’inseguimento di un centro che, non solo a sinistra fa perdere le elezioni, ma rimuove ogni senso di candidarsi, disperdendo la battaglia delle idee e non politicizzando la società su un programma.
Da un punto di vista formale il Labour di Corbyn non ha vinto ma ha compiuto un miracolo: egli ha vinto la segreteria di un partito in fortissima crisi, senza vocazione se non quella di un post-blairismo Milibandiano di pallido socialdemocraticismo, in continuo crollo di iscritti. Corbyn lo ha reso un partito giovane, che si reinsedia nei territori.
È riuscito a gestire la patata più bollente di tutte per la sinistra: la Brexit; infatti la sinistra dovrebbe contestare la globalizzazione neoliberista, secondo i cui dettami l’Europa si è costruita, ma è composta per lo più da attori cosmopoliti e altamente educati che rigettano istintualmente l’idea di sovranità popolare statuale. Corbyn, che in Europa nemmeno voleva entrarci, è riuscito a far sopravvivere il Labour nel voto del Remain, nonostante il suo elettorato di riferimento, in particolare quello che Corbyn è riuscito con fatica a riavvicinare al partito, fosse tendenzialmente per il Leave. Il Labour ha persino riassorbito un po’ del tradizionale voto scozzese in uscita dall’SNP che era riuscito a porsi come attore anti-establishment durante la reggenza centrista dei laburisti. Nonostante i maggiorenti del partito lo avessero osteggiato in tutti i modi, complice la pessima stampa nei suoi confronti, e successivamente alla prima elezione i deputati blariani lo abbiano sfiduciato chiamandolo ad un secondo congresso, Corbyn non li ha sbattuti fuori, non ha nemmeno fatto in modo che se ne andassero “spontaneamente”: li ha annichiliti politicamente con la forza della proposta politica e dei tanti militanti che si sono uniti al partito per sostenerla.
Quella di Corbyn non è stata mai una proposta di testimonianza: proprio come quelle di Syriza, Sanders, Podemos e Mélenchon, è stata una proposta di governo del paese non di messa in campo di una riserva indiana “di sinistra” in un soggetto politico altrimenti collocato ideologicamente o al suo fianco. Quando si dice Radicali nella proposta e Riformisti nella pratica si intende precisamente questo genere di cose.
Il deprimente dibattito nostrano fra macronisti denoaltri che non capiscono i trend elettorali e i meccanismi della democrazia rappresentativa ma trattano la politica come un interruttore per il quale o sei ON o sei OFF, negando la straordinaria rimonta del Labour e, molto più importante del risultato elettorale, l’incredibile mobilitazione di persone sulla sua piattaforma, sono patetici il giusto. Almeno quanto i campioni della sinistra-manontroppo che tifano Corbyn salvo poi se si nomina loro lo Stato accusare coloro che lo fanno di essere semi-fascisti, se nominano i sindacati di essere vetero e se si nominano le ideologie di essere rancorosi.
Da ultimo, vi sono coloro che pensano che l’opzione Corbyn sia riproponibile da chi non ha una cultura di partito (né è intenzionato a farsela), o appaltando tutto al solito consesso della società civile che arriva in soccorso di chi la politica dovrebbe farla di professione ma incredibilmente ogni volta che arriva un’elezione si fa cogliere impreparato, o ancora da chi la parola socialismo ha paura pure di pronunciarla. Tutte concezioni struttualmente insufficienti a superare l’orizzonte post-ideologico e post-moderno imposto dalla retorica neoliberista. Per altro, si continuano ad adoperare tutte le categorie politiche sbagliate per commentare: il contrario di sinistra di governo è sinistra di opposizione e Corbyn evidentemente ha fatto un’ottima opposizione, altrimenti non avrebbe ottenuto questo risultato impensabile per il Labour fino a poco tempo fa; eppure sta in un partito membro del PSE: non esattamente dei bolscevichi, diciamo.
Il contrario di centrismo è eccentricità, essere fuori dal centro; il Labour si è posto come tale: come alternativa fuori dall’indistinzione che alimenta l’antipolitica, la disaffezione e la rinuncia al consenso giovanile, raccogliendo così il voto di protesta ma senza estremismi o inseguimenti della “pancia” degli elettori. Corbyn ha chiesto un voto per la sanità pubblica, il diritto all’istruzione, la nazionalizzazione delle ferrovie. I nostri vanno chiedendo voti per “evitare le larghe intese”, per “combattere i populismi”, per “aprire spazi di partecipazione”. Fra la Politica e il politicismo ci sono di mezzo molte sfumature di un dibattito pubblico al quale ci si adegua continuamente e nel quale finiscono per non dire nulla anche quelli che qualcosa da dire la avrebbero pure.
La proposta e la cultura politiche sono essenziali, e servono entrambe. Non funziona una buona cultura democratica accompagnata da una totale subalternità ideologica né una corretta interpretazione della fase senza alcuna capacità di costruzione del collettivo nella prassi militante e di incisione nelle istituzioni. Ma non solo: l’epica personale ha aiutato molto. Aver avuto il coraggio, per tutta la vita, di dire no quando non era conveniente, ha aiutato. Non essere un giovane arrivista carismatico ma un astemio vegetariano socialista vestito male, anche. Corbyn e quelli come lui infastidiscono o suscitano un’ammirazione di maniera perché dimostrano una cosa molto indisponente per chi fa politica: è possibile fare compromessi senza compromettersi. Questo ha a che fare con il fatto che bisogna cambiare le policies, ma anche la dimensione politics: la sfida all’establishment finanziario, la scelta della difesa del lavoro e della classe media sconfitta dalla globalizzazione neoliberista contro di essa, la coerenza personale, la fedeltà ai propri ideali ma senza settarismi, la convinzione che i partiti politici siano strumento di partecipazione e determinazione dei destini personali e collettivi sono tutte componenti imprescindibili del tentativo di portare il socialismo nel nuovo millennio.
L’immagine più significativa della lunga notte delle elezioni politiche britanniche del 2017 è ambientata ad Islington North. Corbyn entra da solo, abbracciando qualche militante di passaggio, nel seggio nel quale sta per essere rieletto per la nona volta; dalla prima sono passati 34 anni. I suoi voti la sera dell’8 Giugno 2017 sono 40.086. Il sistema dei collegi uninominali non ammette politici che non siano profeti in patria e questa può essere una cosa molto positiva o molto negativa a seconda dei punti di vista. In quell’immagine ci sono gli scontri con la polizia ai picchetti contro la guerra, le umiliazioni dei giornali che lo chiamano ineleggibile, la fatica di dare costantemente conto ai propri elettori del proprio operato, i commenti scandalizzati degli opinionisti che gli danno dello stalinista estremista sovversivo populista pericoloso, la campagna ironica e pungente orchestrata dai ragazzi di Momentum, le parole di disprezzo su di lui pronunciate da Tony Blair, la dichiarazione che Tony Blair è un comprovato criminale di guerra, lo scetticismo di coloro che appoggiarono la sua candidatura la prima volta credendolo un vecchio arnese ma capace di “riaprire il dibattito nel partito”, la foto di tanto tempo fa con Chavez, l’in bocca al lupo che gli fa Sanders, le speranze di chi non si può più curare a causa dell’erosione del welfare e di chi non può più studiare a causa dell’aumento vertiginoso delle tasse universitarie, i risolini della stampa internazionale preoccupata dalla “reazione dei mercati” se avesse vinto lui, le lotte operaie che hanno fondato il Labour, la sua posizione nelle panche più sfigate del parlamento fra i deputati che non contano nulla, migliaia di militanti che fanno il porta a porta per farlo diventare Primo Ministro, la frase di Mc Donnell dopo la sua rielezione a Segretario: “Questa è la nostra visione per ricostruire e trasformare la Gran Bretagna. In questo partito non dovete più sussurrarla. Si chiama socialismo”.
Mentre entra nel seggio Corbyn è visibilmente sulle spine, sorride, si rigira fra le mani un’agendina old style come lui, infine tiene il suo discorso di ringraziamento. Questa volta è un discorso alla comunità di Islington e alla Gran Bretagna tutta e l’eco non ha ancora smesso di propagarsi anche al di fuori dei suoi confini.