La rielezione di Jeremy Corbyn a leader del Labour Party è probabilmente l’unica buona notizia che arriva oggi dal campo dei socialisti europei. Non è solo una buona notizia per tutti coloro che rimangono socialisti nei valori ma che non votano più i partiti della famiglia del PSE, ma è una buona notizia anche per coloro che di quella famiglia fanno parte e che osteggiavano la sua candidatura.
Jeremy Corbyn questo lo sa bene e non perde occasione di dirlo nel suo discorso di chiusura dell’appuntamento congressuale. Si sofferma a lungo a metà del suo intervento sul fatto che il Labour è riuscito a ritrovare le proprie radici: la lotta per ciò che, concludendo, JC rievoca come “fairer Britain in a peaceful world” (una Gran Bretagna più giusta in un mondo pacifico). Una lotta non rievocata solo a parole o nei motti elettorali: gli iscritti al Labour sono aumentati sotto la leadership Corbyn e sono sempre più appartenenti al ceto medio-basso o medio che si impoverisce. Giovani, studenti, precari. Non a caso Corbyn si sofferma sulla necessità di mettere al centro della piattaforma politica del Labour i lavoratori dipendenti che lottano attraverso lo strumento dei sindacati e i lavoratori autonomi, che versano oggi, come i primi, nella medesima condizione di precarietà e marginalità dettata da condizioni di vita sostanziale enormemente peggiorate a causa di decenni di sbilanciamento della dialettica capitale-lavoro; sbilanciamento avvenuto tutto a favore del primo dei termini. Il Labour, come tutti i partiti della famiglia socialista, nasceva per costruire e organizzare i lavoratori e gli sfruttati piegando i rapporti di forza, oggi appunto squilibrati, a loro favore. La sua rielezione, come già la prima vittoria congressuale di un anno fa, chiude una stagione (quella del blairismo, della terza via del “new labour”, condivisa da moltissimi esponenti progressisti di altri paesi occidentali) nella quale gli esponenti politici del campo socialdemocratico avevano abiurato a questa funzione, arrivando a teorizzare l’aproblematicità della supremazia del potere dei capitali sulle forme di organizzazione politica (es. attraverso la deregolamentazione del mondo finanziario, l’adesione alla c.d. trickle down economics, ecc.).
Non a caso anche questa, come quella che ha riguardato negli Stati Uniti Bernie Sanders, è una parabola politica che non si impernia sulla personalità del leader-candidato ma che sarebbe stata impossibile senza una personalità con un trascorso coerente fatto di lotte condotte sempre dalla stessa parte della barricata. In prima istanza, gli esponenti di quello che Corbyn ha chiamato “il socialismo del ventunesimo secolo”, sono infatti politici che hanno ben chiaro il fatto che una barricata esista e che sono quindi pronti a dare battaglia alle élites economico-finanziarie (e ai soggetti politici che fanno i loro interessi) in difesa degli emarginati (che ormai sono la stragrande maggioranza dei cittadini occidentali). Corbyn è sempre stato un difensore dello stato sociale e degli investimenti pubblici (una su tutte, la battaglia per la nazionalizzazione delle ferrovie), un ferreo oppositore di tutte le guerre, dell’austerità e della vendita di armi all’Arabia Saudita; spesso e volentieri ha portato avanti le proprie posizioni in aperta contrapposizione con l’establishment del partito e il senso comune del momento. Un curriculum difficilmente reperibile fra i sostenitori dei suoi avversari, un nome su tutti: Tony Blair, criminale di guerra e sostenitore di politiche neoliberiste in campo economico.
È però proprio alla parte del partito comunemente descritta come blairites che si deve questo secondo congresso in un solo anno. Infatti, nonostante il largo consenso raccolto fra gli iscritti del Labour, la leadership di JC viene rimessa in discussione proprio dal gruppo parlamentare, legato alla vecchia gestione. Proprio quando i sondaggi davano il Labour in rimonta sui conservatori, grazie alla vittoria sotto la segreteria Corbyn di tutti i passaggi elettorali locali e una feroce opposizione in Parlamento ai tagli al welfare promossi da Cameron e all’intervento armato in Siria, l’ala destra del partito inizia ad agitare lo spettro del congresso per tornare a regolare i conti interni. La brexit offre ai blariani una scusa perfetta per riaprire la partita: nonostante la maggioranza degli iscritti al Labour avesse votato per il remain, la vittoria del leave è da imputarsi secondo loro proprio alla linea di Corbyn, troppo morbido nel difendere la permanenza in Europa. Il gruppo parlamentare a trazione blariana, assorto nelle proprie trame anti-Corbyn nelle stanze di Westminster, sembra infatti non essersi accorto che il leave ha trionfato proprio in quel ceto medio-basso che dovrebbe essere la base del Labour e che facendo fuori Corbyn si sarebbe eliminato l’unico leader in grado di riportare quelle fasce sociali a votare per i progressisti (come da tendenza già avviata con la sua prima elezione). Non a caso Paul Mason, editorialista del Guardian e autore di “Postcapitalismo”, ha definito questo secondo appuntamento congressuale una seccatura inutile, che è servita solo a distrarre l’opinione pubblica dal disastro della Brexit, tutto imputabile ai Tories, e dalla situazione economico-sociale difficile che attraversa il paese.
Il tema del “postcapitalismo” e quello delle condizioni materiali di vita del ceto medio hanno moltissimo a che fare con questa rielezione. Innanzitutto perché Corbyn, che nel suo entourage lavora con nomi quali Stiglitz, Mazzucato, Piketty, porta avanti un programma economico radicalmente alternativo a quello neoliberista, sposato in modo bipartisan da socialisti e conservatori dagli anni ’90. In secondo luogo perché questo programma economico è l’unico in grado di salvare la tenuta delle liberaldemocrazie occidentali salvandone la classe media, tornando ad investire soldi pubblici in attività produttive e stato sociale, tornando a regolare i mercati commerciali, finanziari e del lavoro per garantire più tutele e sicurezza ai lavoratori e più qualità ai consumatori. Soprattutto, è l’unico programma che rimette al centro dell’operato politico la dignità dei molti in aperta contrapposizione con l’avidità dei pochi. Nel suo discorso di chiusura dell’appuntamento congressuale Corbyn cita un provvedimento politico in particolare come prioritario: la volontà di assicurare a tutti il diritto alla casa. Ecco allora che diventa chiaro che nella Gran Bretagna (ma anche nell’Europa e nell’Occidente) nel quale nemmeno la soddisfazione di un bisogno primario come quello della casa è una realtà, serva ripensare tutto da capo. Non si tratta più di correggere le storture dell’economia di mercato, ma di assicurare un futuro ai molti che non la hanno più la casa garantita, cioè la sopravvivenza e la dignità di essere umano.
Oltre la divisione fra destra e sinistra, fra conservatori e progressisti, oggi – la Brexit lo ha evidenziato benissimo – la divisione politica corre fra sistemici e antisistemici. Prima ancora delle rappresentanze politiche, coloro che nella società stanno dalla seconda parte sono i più svantaggiati, i precari, i giovani, gli espulsi dal mercato del lavoro in età adulta, i perdenti della globalizzazione. Se questo è il riferimento sociale di una “cosa” politica chiamata “sinistra”, allora questa cosa-sinistra ha il dovere oggi di essere antisistema, cioè rivedere le regole di funzionamento della dialettica capitale-lavoro. Il che significa rivedere il sistema europeo, per evitare che altre Brexit accadano e rivedere il sistema economico per evitare che altri crolli si succedano. Mentre al di là dell’Atlantico si gioca una partita tutta improntata sulla paura, la paura che vinca Trump fra i democratici e la paura del diverso fra i repubblicani, l’elezione di Jeremy Corbyn porta con sé toni di speranza.
Parole di unione, nella lotta comune di tutti i progressisti inglesi contro i Tories alle prossime elezioni; ma anche parole di chiarezza di profilo, per chi spera che i socialisti-di-nome rinsaviscano e pongano fine ad una stagione politica, della quale sono stati protagonisti, che non solo ha peggiorato la vita di milioni di persone, ma soprattutto ha determinato un’emorragia di voti nel loro elettorato tradizionale a favore della destra estrema e di partiti populisti e xenofobi. Se le formazioni più tradizionali del PSE hanno una sola speranza di ritrovare la propria vocazione originaria e tornare a crescere elettoralmente hanno una sola chance: quella di mettere in campo una battaglia culturale contro tutto quello che pure hanno perseguito al governo negli ultimi 30 anni e trovare una nuova classe politica (nuova nelle idee, non necessariamente anagraficamente) che interpreti quella battaglia e quella prospettiva. Oltre i destini del popolo britannico, di questo ci parla il congresso del Labour. Il Regno Unito è uscito dall’Europa, ma la lotta a sinistra è da sempre internazionale: il vero campo da gioco, anche per JC, è proprio quello sovranazionale-europeo. Certo, non può giocare da solo; ma un primo punto di volontà politica è stato messo a disposizione di tutti coloro che lo vorranno sposare. Lo ha ben riassunto John Mc Donnell, sostenitore di Corbyn e Cancellor del governo ombra, dicendo che bisogna tornare ad immaginare una società radicalmente diversa e ad avere una visione completamente altra. Riferendosi a quella visione di società sostenibile, equa, giusta, prosperosa, Mc Donnell ha detto: “In questo partito, non dovete più sussurare il suo nome: si chiama socialismo”.