Tasse universitarie, altro che slogan: il seme socialdemocratico di una società nuova
“La campagna elettorale delle abolizioni”. Così l’hanno soprannominata ultimamente giornalisti ed opinionisti televisivi. Dai vaccini alla legge Fornero, passando per il canone Rai e il bollo auto, la lista delle cancellazioni promesse è lunga e articolata e l’ironia è immediatamente esplosa sul web e non solo, al grido (o meglio, all’hashtag) di #Abolisciqualcosa.
In mezzo al calderone è finita pero’ anche una proposta, lanciata da Pietro Grasso alla recente Assemblea Nazionale di Liberi e Uguali, che ha avuto il merito di risvegliare il dibattito pubblico, assopito in una desolante discussione sui sacchetti biodegradabili: l’abolizione delle tasse universitarie.
L’annuncio, fatto a mo’ di slogan senza troppe spiegazioni, se da un lato è stato facile preda di semplificazioni errate e strumentali, dall’altra, proprio in virtù della sua sintetica chiarezza, ha sortito un effetto sorprendente sotto il profilo mediatico, riportando l’opinione pubblica a misurarsi con un tema più ampio, importante e troppo spesso trascurato. E’ ora di dirlo: finalmente.
Viviamo nell’epoca delle bufale e delle fake news che tutti denunciano ma che nessuno pare riuscire realmente a controllare, in un periodo che vede in contrasto alla modernità e alla necessità di forti specializzazioni un preoccupante analfabetismo di ritorno. Veniamo da anni di umiliazione e abbandono nei confronti dell’università, dell’istruzione e più in generale della cultura. Secondo i dati di una recente ricerca della Fondazione RES, in 10 anni il nostro Paese ha perso oltre 65.000 matricole (il 20% in meno dei diplomati prosegue gli studi), la percentuale di laureati si aggira attorno al 26% (con una media europea al 40%), solo il 9% degli studenti beneficia di borse di studio (in Germania, Francia e Spagna sono rispettivamente il 25,39 e 30%), con una particolare incidenza nel Meridione d’Italia. Anche i docenti sono calati, passando da 63.000 a 52.000, in linea con una flessione sul personale e sui corsi di studio. Tutto ciò a fronte di una diminuzione in termini reali del 22,5% del Fondo di Finanziamento Ordinario e di un aumento delle tasse del 60% che ci ha portato ad essere la terza nazione più cara d’Europa, contestualmente ad una generale penuria di risorse investite in diritto allo studio. Per concludere in bellezza con i numeri, un 4% di PIL investito in istruzione che si smarca in negativo dalla media del 5% del continente.
Ovviamente parliamo dell’Italia, patria di lettere, musica e arti, tradizionalmente tra i Paesi “che contano” fra quelli maggiormente competitivi e industrializzati ma in cui è evidente che si sia disinvestito in maniera lucida e sistematica nelle giovani generazioni.
Una scelta politica chiara e precisa volta a favorire un’università elitaria, per i pochi migliori, schiava di una retorica meritocratica individualista ed esclusiva.
A chi è a Sinistra e ambisce a governare una riflessione deve sorgere spontanea: La Costituzione Italiana nell’immediato dopoguerra prevedeva l’istruzione obbligatoria e gratuita per almeno 8 anni. Nel 2018, con una società in rapida evoluzione, continue innovazioni tecnologiche e digitali, sfide sempre più complesse e minacce sempre più pericolose, con un sistema di sviluppo da ripensare radicalmente possiamo impegnarci ad invertire l’umiliante rotta regressiva di questi anni e dare un forte segnale di cambiamento culturale anche ribaltando la prospettiva e riconoscendo al sapere un inestimabile valore proprio, slegato dal vortice del mercato?
Mi spiego meglio: l’istruzione è un diritto sacrosanto e fondamentale e l’obiettivo strategico dovrebbe essere quello di implementare ed incoraggiare la scolarizzazione, adattando ai nostri giorni ciò che la Costituzione abbozzava. A beneficio di tutti, del progresso, del benessere, per rafforzare gli anticorpi di questo Paese e di ognuno dei suoi cittadini. La diffusione e non la restrizione della conoscenza e dei suoi strumenti può rendere ciascuno più libero, forte e indipendente nelle proprie scelte.
In questo senso l’abolizione delle tasse universitarie rappresenta una proposta di welfare universalistico più interessante di quanto si possa pensare.
La proposta prevede da un lato una graduale abolizione della contribuzione studentesca, oltre alla rimodulazione (in base al reddito) in chiave progressiva della tassa regionale sul diritto allo studio.
Dall’altro lato un investimento mirato sul welfare studentesco (dagli alloggi alle borse di studio, passando per i libri e la mobilità) e sull’accessibilità, con l’abolizione del numero chiuso.
Il tutto per un costo di 1,6 miliardi di euro (ben al di sotto dei 9 miliardi investiti per gli 80 euro, e ai 20 miliardi di sgravi alle imprese del Jobs Act, per fare un raffronto).
Se si pensa che già oggi il sistema universitario è finanziato per l’85% dalla fiscalità generale si intuisce facilmente come le tasse servano quasi unicamente a creare una barriera d’ingresso.
Nel contesto odierno sono i ceti medi a pagare più di ogni altro il peso di tasse scarsamente progressive che invece una famiglia ricca evita facilmente di pagare, mandando il proprio figlio a studiare in università private o all’estero, certamente più prestigiose.
La forza della proposta di Grasso sta nell’idea che sia giusto che tutti contribuiscano, anche se senza figli a carico, a far sì che chiunque possa studiare ed istruirsi, perché la priorità sta nel nostro futuro.
La formazione torna ad essere intesa come un diritto universale (perciò gratuito) e non un servizio a domanda individuale privato. Un mezzo di emancipazione collettiva nell’interesse di tutti secondo un principio di responsabilità comune che riafferma anche la centralità e il valore del “pubblico”.
Chi parla di misura iniqua o populista non ha realmente compreso il carattere di un’idea che si colloca a pieno titolo nel filone politico e culturale della Rivoluzione socialista e democratica di Bernie Sanders negli Stati Uniti e Jeremy Corbyn in Inghilterra, portatori delle stesse istanze. La grande novità è, per una volta, l’essere riusciti a scrollarsi di dosso una fastidiosa subalternità culturale che confinava la sinistra a stagnare nel post-comunismo e in un tiepido riformismo che gestisse al meglio l’esistente e non tentasse di trasformarlo.
Quanto sin qui detto non è che un tassello di una più larga visione di società nuova da immaginare, una società che rimetta al centro la cultura e il sapere come leva di sviluppo ma anche come strumento di realizzazione personale e collettiva e di lotta alle diseguaglianze e ai privilegi che pervadono il nostro Tempo.
Dettare l’agenda politica, lanciare messaggi forti, carichi di un significato profondo e ulteriore, fornire un orizzonte culturale che ribalti schemi e paradigmi per riaggregare e rivitalizzare le speranze e le ragioni dei molti, non dei pochi: questo sarà il compito di Liberi e Uguali, se vorrà distinguersi dal resto dell’offerta politica fatta di slogan pubblicitari isolati, slegati da un progetto generale. Un compito arduo e che dovrà svolgersi ben oltre le imminenti elezioni perché come diceva Enrico Berlinguer “noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita”
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Nella foto: Pietro Grasso durante l’intervento all’assemblea nazionale di Liberi e Uguali del 7 gennaio 2018