Da quando è entrata in vigore la moneta unica, l’Italia si è caratterizzata per i continui rinvii della politica di rigore nei conti pubblici per ridurre l’elevato debito pubblico. Ciò fu alla base della decisione di ammetterci, fin dall’inizio nell’Eurozona, avendo i nostri partner ritenuto credibile la promessa di porre fine alle politiche di deficit spending, che caratterizzarono gli anni ’80 del secolo scorso.
Grazie ad una virtuosità, seppur altalenante, che raggiunse il suo apice col secondo Governo Prodi, il debito pubblico italiano scese nel 2006 sotto il 100% del Prodotto Interno Lordo (PIL). Complice la crisi che ridusse drasticamente il prodotto italiano, da allora è ricominciata la crescita impetuosa del debito, che ora si attesta attorno al 133% del PIL.
I governi recenti, senza eccezione alcuna, hanno sempre scritto, negli atti ufficiali compresi nei Documenti di Economia e Finanza (DEF) e nelle leggi di bilancio, l’avvio del risanamento. Questo fu solennemente sancito con l’approvazione della legge costituzionale 1/2012, inserendo il principio del pareggio di bilancio che doveva decorrere dal 2014. Come si sa, il Governo guidato da Matteo Renzi fu abilissimo nel rinviare, anno dopo anno, il risanamento.
Vennero utilizzate tutte le motivazioni per ottenere “flessibilità” (cioè l’autorizzazione a fare nuovo debito): dalla necessità di mantenere un livello adeguato di investimenti, alle spese per mettere in sicurezza le scuole; dagli interventi per il terremoto all’emergenza migranti. Salvo scoprire, dall’analisi dei rendiconti, che magari la flessibilità era stata usata per altro; cioè per spesa corrente, bonus e altri interventi di natura diversa.
Ora l’ex Presidente del Consiglio, anche nella ricerca di tornare al centro del dibattito politico, si lancia in una proposta ardita: per i prossimi anni si autorizzi un deficit prossimo al 3% del Pil per destinarne una parte alla riduzione delle imposte, del cuneo fiscale e non si sa di che altro. Una proposta che tende a riproporre le stesse ricette adottate, fra l’altro, nel triennio scorso, con risultati non esaltanti.
La risposta dell’Europa non si è fatta attendere: irricevibile e a tratti sprezzante, in quanto proveniente da persona senza incarichi di governo, negativa, sottolineando inoltre che già l’Italia ha fruito del massimo della flessibilità possibile. I mercati non l’hanno presa neanche in considerazione, tant’è che, nella giornata della sua pubblicizzazione, i Titoli di Stato italiani, da settimane sotto pressione, sono rimbalzati chiudendo in crescita.
Nel triennio 2014 – 2016, infatti, oltre a deficit annuali non lontani dalla “nuova” idea del Segretario del PD, (nel 2014, -3%; nel 2015, -2,6% e nel 2016, -2,4%) il Governo si è potuto giovare di una notevole riduzione del costo del debito, grazie al programma di acquisto di titoli di Stato portato avanti con decisione dalla BCE, guidata da Mario Draghi, il cosiddetto “quantitaive easing”. Un risparmio pari a circa 17 miliardi all’anno, malgrado la crescita intervenuta, anno dopo anno nel volume del debito pubblico, per effetto dei disavanzi cumulati.
A spanne, nel triennio considerato, il Governo ha avuto a disposizione, rispetto alle entrate, 130 miliardi circa di deficit, flessibilità comprese, oltre a circa 50 miliardi di minori spese per interessi. 180 miliardi spesi in mille rivoli, tra i quali gli 80 euro, la decontribuzione temporanea per le nuove assunzioni e per bonus vari.
Di quanto è cresciuto il PIL in quel triennio di vero deficit spending, che qualcuno ancora oggi ha il coraggio (leggi la faccia tosta) di chiamare “austerità”? Meno della metà della media europea.
Più del doppio di noi sono cresciuti la Germania e i paesi del nord Europa, che hanno invece realizzato il pareggio di bilancio, o l’avanzo (come la Germania). Esempi virtuosi di crescita con il rigore (o meglio, grazie al rigore) li troviamo anche nel Belgio, entrato nell’Eurozona, con un debito pubblico alto come quello italiano e ora sceso sotto il 100% del Pil; più di recente, nel Portogallo che, con una politica di sinistra di tagli, tasse ed interventi di stimolo all’economia, ha ridotto il deficit, iniziando a far decrescere il debito e conseguendo una crescita molto alta. Il Portogallo è stato premiato dagli investitori, dal mercato, sicché il rendimento (e quindi il costo) dei suoi titoli di stato è sceso drasticamente nel giro di pochi mesi.
“Errare humanvm est, perseverare autem diabolicvm”
Deficit spending, la ricetta che non fa guarire
Da quando è entrata in vigore la moneta unica, l’Italia si è caratterizzata per i continui rinvii della politica di rigore nei conti pubblici per ridurre l’elevato debito pubblico. Ciò fu alla base della decisione di ammetterci, fin dall’inizio nell’Eurozona, avendo i nostri partner ritenuto credibile la promessa di porre fine alle politiche di deficit spending, che caratterizzarono gli anni ’80 del secolo scorso.
Grazie ad una virtuosità, seppur altalenante, che raggiunse il suo apice col secondo Governo Prodi, il debito pubblico italiano scese nel 2006 sotto il 100% del Prodotto Interno Lordo (PIL). Complice la crisi che ridusse drasticamente il prodotto italiano, da allora è ricominciata la crescita impetuosa del debito, che ora si attesta attorno al 133% del PIL.
I governi recenti, senza eccezione alcuna, hanno sempre scritto, negli atti ufficiali compresi nei Documenti di Economia e Finanza (DEF) e nelle leggi di bilancio, l’avvio del risanamento. Questo fu solennemente sancito con l’approvazione della legge costituzionale 1/2012, inserendo il principio del pareggio di bilancio che doveva decorrere dal 2014. Come si sa, il Governo guidato da Matteo Renzi fu abilissimo nel rinviare, anno dopo anno, il risanamento.
Vennero utilizzate tutte le motivazioni per ottenere “flessibilità” (cioè l’autorizzazione a fare nuovo debito): dalla necessità di mantenere un livello adeguato di investimenti, alle spese per mettere in sicurezza le scuole; dagli interventi per il terremoto all’emergenza migranti. Salvo scoprire, dall’analisi dei rendiconti, che magari la flessibilità era stata usata per altro; cioè per spesa corrente, bonus e altri interventi di natura diversa.
Ora l’ex Presidente del Consiglio, anche nella ricerca di tornare al centro del dibattito politico, si lancia in una proposta ardita: per i prossimi anni si autorizzi un deficit prossimo al 3% del Pil per destinarne una parte alla riduzione delle imposte, del cuneo fiscale e non si sa di che altro. Una proposta che tende a riproporre le stesse ricette adottate, fra l’altro, nel triennio scorso, con risultati non esaltanti.
La risposta dell’Europa non si è fatta attendere: irricevibile e a tratti sprezzante, in quanto proveniente da persona senza incarichi di governo, negativa, sottolineando inoltre che già l’Italia ha fruito del massimo della flessibilità possibile. I mercati non l’hanno presa neanche in considerazione, tant’è che, nella giornata della sua pubblicizzazione, i Titoli di Stato italiani, da settimane sotto pressione, sono rimbalzati chiudendo in crescita.
Nel triennio 2014 – 2016, infatti, oltre a deficit annuali non lontani dalla “nuova” idea del Segretario del PD, (nel 2014, -3%; nel 2015, -2,6% e nel 2016, -2,4%) il Governo si è potuto giovare di una notevole riduzione del costo del debito, grazie al programma di acquisto di titoli di Stato portato avanti con decisione dalla BCE, guidata da Mario Draghi, il cosiddetto “quantitaive easing”. Un risparmio pari a circa 17 miliardi all’anno, malgrado la crescita intervenuta, anno dopo anno nel volume del debito pubblico, per effetto dei disavanzi cumulati.
A spanne, nel triennio considerato, il Governo ha avuto a disposizione, rispetto alle entrate, 130 miliardi circa di deficit, flessibilità comprese, oltre a circa 50 miliardi di minori spese per interessi. 180 miliardi spesi in mille rivoli, tra i quali gli 80 euro, la decontribuzione temporanea per le nuove assunzioni e per bonus vari.
Di quanto è cresciuto il PIL in quel triennio di vero deficit spending, che qualcuno ancora oggi ha il coraggio (leggi la faccia tosta) di chiamare “austerità”? Meno della metà della media europea.
Più del doppio di noi sono cresciuti la Germania e i paesi del nord Europa, che hanno invece realizzato il pareggio di bilancio, o l’avanzo (come la Germania). Esempi virtuosi di crescita con il rigore (o meglio, grazie al rigore) li troviamo anche nel Belgio, entrato nell’Eurozona, con un debito pubblico alto come quello italiano e ora sceso sotto il 100% del Pil; più di recente, nel Portogallo che, con una politica di sinistra di tagli, tasse ed interventi di stimolo all’economia, ha ridotto il deficit, iniziando a far decrescere il debito e conseguendo una crescita molto alta. Il Portogallo è stato premiato dagli investitori, dal mercato, sicché il rendimento (e quindi il costo) dei suoi titoli di stato è sceso drasticamente nel giro di pochi mesi.
“Errare humanvm est, perseverare autem diabolicvm”
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Enzo Umbrella
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