“Fu un secolo fa, qui a Brighton, che una giovane commessa ne ebbe abbastanza delle condizioni terribili che lei e i suoi colleghi erano costretti a subire. Rischiò il licenziamento per aver aderito al sindacato dei lavoratori dei negozi, dopo averlo conosciuto da un giornale utilizzato per incartare fish and chips, e fu talmente capace nel difendere le donne lavoratrici dei negozi che nemmeno trentenne divenne vicesegretario generale.
Con quel ruolo sostenne la storica risoluzione al Congresso dei sindacati del 1899 per la nascita del Comitato di rappresentanza del Labour in modo che i lavoratori fossero finalmente rappresentati in Parlamento. Quel comitato divenne poi il Labour Party e quella donna, Margaret Bonfield, più tardi venne eletta parlamentare del Labour. E, nel 1929, fu la prima donna a far parte di un esecutivo britannico”.
Leggo le parole pronunciate da Jeremy Corbyn al termine della Conferenza annuale del partito svoltasi a Brighton dal 24 al 27 settembre scorsi e mi domando dove siano le Margaret Bonfield, oggi.
Il femminismo europeo ha lasciato in eredità a noi donne l’anelito all’autodeterminazione, il desiderio di autonomia, la determinazione ad acquisire un ruolo sociale che non dipenda dal numero di figli che mettiamo al mondo.
E però è pur vero che, se ci guardiamo intorno, non vediamo donne traboccanti soddisfazione. Le indagini condotte nel nostro Paese consegnano la fotografia di un Paese nemico delle donne in cui la generazione immediatamente successiva al femminismo aveva conquistato il diritto a lavorare fuori casa, pur continuando ad occuparsi della famiglia. Certo, il nostro non è mai stato un Paese in cui alle donne fosse concesso di vivere con le medesime opportunità degli uomini, ma la possibilità di abortire legalmente, di divorziare, di non essere costrette a sposare gli uomini che le stupravano, di portare i pantaloni a scuola ci avevano illuse che il patriarcato stesse vacillando e che la lotta di classe potesse andare a braccetto con la lotta per l’emancipazione femminile.
Certo, molti movimenti erano implosi anche per le contraddizioni tra le due anime, tra compagni che predicavano la rivoluzione nel Paese, continuando a non mettere però in discussione il fatto che fossero le compagne a mettere in tavola la cena. E, però, sembrava che molti pezzi del Paese capissero, e fossero dalla parte delle donne. Persino la Chiesa, dopo la legislazione sul divorzio, fu costretta ad occuparsi delle famiglie e ad iniziare a mettere in discussione lo schema secondo il quale la donna tentatrice avrebbe dovuto sopportare ogni sopruso maschile, accontentandosi di aver cura del focolare domestico, senza alcuna autonomia economica e sociale. Certo, i tempi furono molto lunghi e ancora oggi, malgrado Papa Francesco si definisca femminista, il femminismo è vissuto con molto sospetto e quasi fosse una contrapposizione tra il maschile e il femminile. Io amo molto la definizione di Robin Morgan, quando afferma che “non si tratta di una minoranza oppressa che si organizza su questioni valide ma pur sempre minori. Si tratta della metà del genere umano che afferma che ogni problema la riguarda, e chiede di prendere parola su tutto. Il femminismo è questo” anche se, va detto, le femministe non sono un corpo unico, sono persone con diverse occupazioni, situazioni economiche e sensibilità, ma ci sono molte cose che accomunano le donne ed è profondamente sbagliato non tenerne conto.
Oggi le donne sono le prime a pagare la crisi economica, sono le prime ad uscire dal mondo del lavoro e le più povere. Abbiamo mille risorse, sappiamo fare molte cose e le facciamo bene, abbiamo il nostro sguardo sul mondo, la nostra caparbietà, le nostre ansie, la nostra capacità di cura. Sappiamo riannodare i fili, sorridere anche quando siamo tristi, sappiamo trasformarci in vespe quando serve. Ma non abbiamo ancora sviluppato modelli di gestione al femminile, e lasciamo spazio ai commenti di chi dice che le donne, sul lavoro, sono peggio degli uomini, più crudeli e pretenziose. È vero, abbiamo imparato ad uniformarci al modello maschile, siamo educate nella stessa società e dalle stesse donne e uomini che educano i maschi a prendersi il potere, non abbiamo ancora sviluppato la capacità di mantenere dritta la barra sulla nostra dolcezza, quando c’è, perché troppo spesso viene scambiata per compiacenza e debolezza. E così stiamo un passo più indietro degli uomini, perché se amiamo le gonne corte e i tacchi, ci guardano accavallare le gambe, anziché ascoltarci, e ci tocca pure sentirci dire che forse, se la smettessimo di vestirci così, saremmo più credibili.
Ma non esiste un solo tipo di donna, come non esiste un solo tipo di uomo. Ma esiste per tutte una vita di precarietà, in cui bisogna scegliere se fare più di un figlio o rimanere autonome economicamente. Troppo spesso molliamo, messe sotto pressione, perché noi ci portiamo appresso i figli in tutto ciò che facciamo. Che mentre siamo al lavoro dobbiamo chiamare il pediatra, la scuola, dobbiamo organizzare l’attività extrascolastica del bambino e pensare alla cena. Abbiamo i nonni che sostituiscono uno Stato nullafacente o quasi, abbiamo le notti insonni e la mattina ci tocca essere fresche e riposate. Eppure siamo le prime alle quali si chiede di farsi da parte se al lavoro c’è un esubero, perché tanto abbiamo il marito che ci mantiene.
I dati ci dicono che in Italia l’occupazione femminile su base mensile è 48,9% contro il 68,5% dell’Europa, e questo accade perché alle donne viene richiesto uno sforzo che non riescono più a reggere e, quindi, molto spesso scelgono di fermarsi al primo figlio. I figli si fanno più tardi, quando si fanno, perché se si vuole studiare, non si ha lo stipendio e se si ha un lavoro, il lavoro è troppo precario per potersi permettere di mettere in piedi una famiglia. E quando la famiglia c’è e i figli ci sono, iniziamo a pensare che sia un nostro diritto e un diritto dei bambini, quello di poterci passare del tempo insieme, senza dover oltretutto spendere tutto lo stipendio in baby sitter e asili nido.
E molte donne che non hanno figli, sia che rinuncino a farli, sia che non possano o che proprio non ne vogliano, subiscono il peso di essere maggiormente sfruttate sul lavoro, considerate come quelle che tanto non avrebbero nulla di meglio da fare.
È una rivoluzione culturale, quella che dovremmo mettere in atto, cominciando dall’educazione delle bambine e dei bambini, ma sono soprattutto le scelte politiche a condizionare la cultura. Ma bisogna che tutte e tutti noi, a cominciare da chi fa politica, introietti una verità rivoluzionaria: senza il contributo delle donne, la loro creatività, il loro sguardo, ogni luogo di lavoro, di discussione, di decisione, è un luogo più povero.
E l’Ocse, grazie ad un’indagine pubblicata in questi giorni, rende la fotografia di un’Italia che noi donne conosciamo benissimo: siamo percepite come assistenti familiari, noi donne, veniamo incoraggiate ad usufruire del congedo di maternità, mentre gli uomini vengono nella stragrande maggioranza dei casi disincentivati, non godiamo di flessibilità sul lavoro e i servizi per l’infanzia hanno troppo spesso prezzi inaccessibili.
Di queste cose bisognerebbe occuparsi, in politiche per le donne, ma le donne devono starci in politica, per far sentire la loro voce e sta qui il corto circuito, perché la politica troppo spesso, per tempi e modalità è a noi impedita. Incentivi fiscali, servizi per l’infanzia a portata di mano e di portafoglio, lavori flessibili. Di questo hanno bisogno le donne, per potersi fidare di uno Stato che ci chiede di diventare madri, relegandoci comodamente in quel ruolo soltanto. Abbiamo bisogno di essere considerate esseri umani senzienti e pensanti, abbiamo bisogno di sapere che il nostro contributo non è un orpello da esibire quando manca il nome di una donna sul palco o una segretaria che prenda appunti o qualcuna che pulisca il bagno del capo.
Noi questo Paese lo teniamo in piedi, con la fatica e l’impegno quotidiani, abbiamo il diritto di considerarci cittadine a tutti gli effetti.