Renzi Direzione

Che fare? Gli errori da evitare

Consentitemi questo titolo, che poi è una domanda, su cosa fare dopo il referendum. La domanda avrebbe potuto anche essere “quale strada prendere per risalire la china e tornare a guardare il sole?”.

Sui risultati del referendum, su quanto è accaduto si stanno già scatenando i commentatori di professione, così potremo leggere cose sagge diluite in un mare di sciocchezze e di ovvietà. Io vorrei partire da un personale angolo di visuale, quello di una militante storica del PD. Questo momento referendario è stato considerato molto importante fin dall’inizio, per questo motivo ho scelto di seguirlo, di viverlo direttamente dentro e intorno al seggio. E’ stata un’esperienza utile. Ho guardato facce conosciute e sconosciute, abbiamo parlato, ho osservato tanti volti, tanti abiti, tante età diverse, c’erano espressioni accigliate e sorridenti, sguardi stanchi e sguardi gioiosi, mani fragili di anziani e complicate pettinature di giovanissime. Insomma ho guardato negli occhi la mia gente, un popolo che ha scelto volontariamente e decisamente di usare l’atto democratico del voto per esprimere la propria decisione. Perché dico questo? Perché, in politica, i sondaggi, le ricerche ci possono essere d’aiuto nello sviluppo delle analisi, ma ci fanno perdere il senso reale di ciò di cui si parla, ci allontanano dal colore e il calore del rapporto.

Ho guardato la mia gente e mi sono posta la domanda: “per chi stiamo davvero lavorando?” Chiaramente mi riferisco al PD. Credo che non sia una domanda banale e non voglio risposte banali. Ultimamente ci siamo detti o abbiamo sentito dire “noi ora vogliamo vincere”. Certo, ma per fare cosa? Non confondiamo lo strumento con il fine. Usare le tecniche del marketing nella ricerca del consenso ci può aver portato a introiettare una mentalità aziendale in una struttura che azienda non è. Il partito non è un dentifricio, il partito è un qualcosa in cui si cerca (e si trova) la propria identità. Il partito, con questa forza, cambia la realtà. L’adesione al partito, quindi al riconoscimento dell’identità si esterna nel voto. Quello che è successo nelle ultime due tornate elettorali la dice lunga su questo argomento. C’è chi, oggi, dice “a ben vedere il quaranta per cento ottenuto nel referendum (magari diciamo trentacinque, o trenta, assegnando qualcosa agli alleati) in realtà è un buon risultato, perché quelli sono schede date a Renzi, mentre quel sessanta per cento dei noi dovrebbero essere divisi fra le quattro forze politiche schierate con il no”. Questa, secondo me, è un modo di ragionare sbagliato e criticabile perché riconduce tutto in un’ottica ragionieristica appoggiandosi su assunti indimostrabili. Inoltre dimostra di pesare ogni situazione con il bilancino delle elezioni politiche e amministrative, il referendum è un’altra cosa.

Ancor più grave è l’ottica spartitoria. Io credo che da questo referendum si possano trarre le seguenti considerazioni e cioè che più del 70% degli italiani crede nel voto come espressione di democrazia e di libertà e che la grande maggioranza degli italiani non si sono identificati nel nostro progetto. Che fare? Secondo me occorre scegliere di adottare una politica di unione, una politica che avvicini e non che divida. Da troppi decenni si gioca sulla spaccatura dell’elettorato per prendersene un pezzo, farsi portavoce di interesse parziali e di parte, creando quella sottocultura di tipo calcistico del ‘noi contro voi’, che avrà dato anche dei risultati in termini elettorali, ma, alla lunga, ha fatto radicare una logica della frantumazione, della divisione nemica della nazione e degli interessi collettivi. Ci sono anche altre forze che spingono in questa direzione, ma la ruffianeria politica in questa direzione ha generato la visione di un’identità che nasce dalla negazione dell’altro, dal conflitto. Questo non vuol dire che nella società non ci possano essere contrapposizioni, ma che anche queste a un certo punto vanno superate per ricompattare popolo e nazione. Si è persa la consapevolezza che ‘si fa la guerra per fare una nuova pace’.

Durante gli anni di piombo abbiamo potuto vedere che solamente con l’unione delle forze, degli interessi, si possono superare i momenti drammatici di una democrazia. Quella a cui abbiamo assistito negli ultimi vent’anni non è stata una campagna politica permanente, bensì una pseudo guerra civile depotenziata. La politica è diventata la continuazione della divisione sotto altre forme. E allora occorre riprenderci le sezioni, le piazze, i quartieri, i luoghi di lavoro, i sindacati, i modelli di gestione del tempo libero, ridare sangue alla parola ‘solidarietà’, all’espressione ‘coscienza sociale’ e, lasciatemelo dire, ‘popolo’. Aggiorniamo queste idee, ma manteniamone la dignità. Questo significa stare nella vita da protagonisti e che il nostro modello di comportamento deve diventare, ogni giorno, un elemento distintivo e riconoscibile. Come ai tempi del ‘partito dalle mani pulite’, che era un modello di comportamento riconosciuto (e guardato con stizza) anche dagli avversari politici. Ora l’emergenza attuale si chiama crisi economica, che poi ormai non si può chiamare in quel modo (nove anni!), trasformata nella giustificazione per imporre un diverso modo per ripartire le ricchezze, così ingiusto, devastante e feroce da generare incendi in tutto il mondo.

Se vogliamo essere attori di questo cambiamento occorre essere in grado di cambiare anche nella nostra casa, nel PD. Io chiedo, come donna, come militante e come persona un forte e libero dibattito interno sulle idee da applicare, sui comportamenti interni e sulla pulizia morale da fare nelle nostre stanze, chiedo di aprire le porte delle sezioni a un rapporto più stretto con tutti nostri concittadini, imparare a dialogare di persona e con i social media, creare rapporti stretti e attivi con le strutture del sociale come Libera, Emergency, con le associazioni di difesa dalla violenza sulle donne, essere presenti nelle associazioni culturali e da tutti saper assorbire idee, esperienze e ravvivarle con il nostro contributo, le nostre idee e le nostre esperienze.
Concludo: c’è tanto da fare.

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