Puntualmente, a fine marzo, come tutti gli anni delle ultime due legislature, si annuncia la richiesta di rinvio del percorso di risanamento del debito pubblico italiano, inutilmente scolpito in Costituzione con l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio.
Entro il 10 aprile, il Governo, presieduto da Paolo Gentiloni, dovrà presentare in Parlamento il Documento di Economia e Finanza (DEF), cioè le linee guida della legge di bilancio per il 2018; inoltre, entro fine aprile il governo dovrà dar seguito alla promessa di correggere il bilancio 2017 dello 0,2% del PIL, cioè i 3,4 miliardi che si attende Bruxelles.
Sotto la pressione dell’ex premier Matteo Renzi, Gentiloni ha dichiarato, incontrando le Regioni a Palazzo Chigi lunedì scorso, che le norme e i vincoli europei sono negoziabili. Queste le sue parole: “Certamente da qui all’autunno la discussione con Bruxelles sarà aperta e potrà produrre risultati, sapendo che da un lato dobbiamo mantenere gli equilibri, dall’altro dobbiamo ottenere una cornice europea più realistica”
Cambiano i toni rispetto al Governo precedente, ma siamo alle solite: impegni solennemente assunti in autunno per strappare flessibilità a Bruxelles, puntualmente rinviati in primavera, sulla base di quella che si dimostra ormai la strategia dei governi Renzi – Gentiloni. Da qui a ottobre, quando dovrà essere varata la legge di bilancio, si prepara l’ennesimo negoziato per strappare nuova flessibilità o meglio, chiamando le cose con il loro nome, nuovo debito.
Come una partita a poker giocata sempre allo stesso modo: il rilancio ed il bluff.
Invece, il Presidente Gentiloni, nell’interesse del Paese e nel suo personale, di marcare discontinuità col passato, dovrebbe caratterizzare la sua azione con l’affidabilità e il rispetto delle regole: “pacta sunt servanda” è la base delle relazioni internazionali e porta vantaggi sui mercati, in termini di minori “spread” rispetto al costo del debito pubblico dei partner europei.
Il Governo avrebbe il dovere di presentare un DEF coerente con le promesse, fare la correzione di 3,4 miliardi e preparare la manovra del 2018 con tagli di spesa selettivi, una decisa azione contro evasione ed elusione fiscale e pure con aumenti di IVA e accise.
Quest’ultima misura – fieramente avversata dai partiti per motivi di consenso elettorale – avrebbe invece una serie di vantaggi: spostare il carico di imposte dai redditi alle cose, aumentare l’inflazione e quindi il PIL nominale (migliorando gli indici legati a questo valore) oltre che far crescere le entrate.
Rispettare gli impegni assunti significa acquisire credibilità nello stare insieme in Europa e nei mercati finanziari; troppo si è perso finora disattendendoli.
Il 19 settembre 2015, il Ministro Pier Carlo Padoan, presentando la Nota di Aggiornamento al DEF dichiarò: “L’indebitamento netto strutturale raggiungerà il pareggio nel 2018, rimanendo a tale livello nel 2019”. Con quel documento confermava l’impegno a ridurre il debito pubblico al 127,9% del PIL nel 2017, al 123,7%, nel 2018 e al 119,8% nel 2019.
La dura realtà è invece il 133,3% che ci attende per fine anno (quasi 90 miliardi in più di debito rispetto alle promesse passate) che dovrebbe calare (forse) marginalmente fino al 2019.
Continuando nella politica del rinvio e col Quantitative Easing della BCE, che presto o tardi finirà, per i mercati sarà gioco facile farcela pagare, come nel 2011.
Personaggi come Dijsselbloem avranno buon gioco a prenderci in giro e lo spettro di una possibile crisi finanziaria per il terzo debito pubblico più alto del mondo, già si legge nei commenti del Wall Street Journal: “Italia maggiore minaccia politica per investitori”.
Sulla base dei dati ufficiali, analizzati dall’agenzia Askanews, in 20 anni la spesa per interessi sul debito pubblico ha superato i 1.700 miliardi di euro, cioè un anno di PIL sprecato per pagare interessi più alti del dovuto.
Ma vent’anni fa l’Italia mostrò ben altra credibilità; con l’Eurotassa nel 1996 si tagliò dello 0,6% il deficit per centrare il parametro del 3% e per avviare la riduzione del debito, pari allora al 124% del PIL. Il rientro proseguì, tra alti e bassi fino al 2006, quando (col governo Prodi – Padoa Schioppa) si scese sotto il 100% del PIL.
Dalla crisi Lehman Brothers, la corsa fino al 133,3 di quest’anno è stata impetuosa.
Eppure uno Stato come il Belgio, partendo da un rapporto Debito/PIL del 134%, allora molto superiore a quello italiano, è riuscito a ridurre di molto tale indice, godendo ancora oggi dei risultati della sua politica di rigore. Nel 2007 l’indice belga era sceso all’84%, oggi è risalito ma non supera il 94%.
Il Belgio aveva e ha tante caratteristiche simili all’Italia: costo del lavoro e imposizione fiscale alti, settore pubblico costoso, instabilità politica e ripetute crisi di governo, però aveva iniziato per tempo una politica di rigore sui conti pubblici. Con un robusto avanzo primario (le entrate meno le uscite al netto della spesa per interessi sul debito), frutto dei tagli dei sussidi alle imprese, della riforma delle pensioni, di una spending review seria. Interventi che l’Italia ha attuato solo negli ultimi dieci anni.
Con siffatte riforme il Belgio ha avuto più di 30 anni di avanzo primario, in media del 5,1%, quasi il doppio di quello italiano, che raggiunse il suo picco (del 6,1%) nel 1997, per vederlo man mano ridursi, sulla base dell’idea errata che non vi fosse più urgenza di risanamento. Sulla base, allora come oggi, di ragioni politiche: elezioni imminenti, equilibri interni, impopolarità dei tagli.
E’ mancata la coerenza. Dopo l’azione emergenziale per entrare nell’euro, si è dimenticato che, con un alto debito, le uscite devono superare di molto le entrate.
Altra differenza è lo strumento usato: una spending review iniziata negli anni ‘80 in Belgio, la tassazione in Italia. Inoltre la strategia di rientro belga, fu seguita da tutti i governi che si susseguirono e ciò è stato fondamentale. Il Belgio, pur col rigore, ha visto crescere il PIL più della media della zona euro, senza la tensione sui titoli sovrani che ha colpito Spagna, Italia e Portogallo.
Oggi il rendimento del titolo di stato belga a 10 anni è dello 0,86% mentre il nostro BTP decennale paga il 2,16%, una differenza che rappresenta l’extracosto a carico dell’Italia della sua scarsa credibilità rispetto al Belgio, entrato nell’Euro con indici peggiori dei nostri.
Su questo si basa la diffidenza verso l’Italia: sulla scarsa credibilità di un Paese che continua a chiedere di spostare in avanti il pareggio strutturale di bilancio.
L’Europa ha concesso più volte la flessibilità sulla base ogni volta di motivazioni diverse: una volta fu il calcolo dell’indice “output gap” – la differenza tra il prodotto interno lordo effettivo e quello potenziale – un’altra le spese per investimenti, realizzati in parte, infine, lo scorso anno, le spese per i migranti e per il terremoto, risultate sovrastimate.
Non resta che una sola strada: quella della serietà di intenti e del recupero della credibilità. Seguendo l’esempio degli Stati più virtuosi o anche di uno Stato cui peraltro non mancano i difetti, cioè il Belgio.
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Nella foto di copertina: Il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il Ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan