– Ore 7 di domenica 17 aprile 2016, si aprono i seggi. Poco alla volta, arrivano i primi elettori. Cittadini di ogni età e provenienza. Ed ogni volta, per me in veste di scrutatore (ventiduenne) e per ognuno di loro (glielo si legge in volto) in quella di elettori, è un’emozione.
E’ un’emozione, ad esempio, per la e il giovane che vota la prima volta. Mi piacerebbe avere un dato sulla partecipazione al voto degli under ’30 in questa tornata referendaria. Sono certo: dati sconfortanti. Le classiche e vuote frasi, tutte riassumibili nella deresponsabilizzante ed insensata “tanto non cambia niente”, si perdono. Non tratterò il tema dell’astensionismo, quello che mi interessa è invece la partecipazione.
Quei giovani cittadini che sono andati al voto si riconoscono dalla faccia e dagli occhi. Arrivano con i genitori, ma anche soli, prima di uscire il pomeriggio con gli amici, per dire a loro stessi e a tutti: la mia opinione conta. Come dargli torto? E’ vero, e la riprova è l’emozione estrema provata da quei giovani che per la prima volta (ma anche non la prima) si recano al seggio. In loro si legge fierezza e orgoglio, sentono di aver fatto la cosa giusta e di contare qualcosa. Illusi?
Molti che da quelle prime esperienze ormai sono lontani risponderebbero si ma io non ci credo. Non saranno invece quegli “over 30” (i più grandi) a pensare che, davvero, quel gesto non conti più nulla? Potrebbero chiedere conferma ai loro genitori. Persone nate negli anni ’20 o ’30, con tessere usurate ed orgogliosamente piene di timbri, che per arrivare fino al seggio (probabilmente dietro casa) hanno dovuto intraprendere un impervio e lungo cammino come non gli succedeva da quando erano bambini. Allora, durante il ventennio fascista, quando con un solo paio di scarpe, ma in mano (“perché se no si consumavano”), a piedi nudi partivano, seguendo strade sterrate, per la scuola più vicina, probabilmente a diversi chilometri da casa. E che, ripensando a quanto è costato poter compiere quel gesto (oggi come ieri), a quel diritto proprio non rinunciano. Perché sanno bene quale sarà l’alternativa, l’hanno già vissuta e ne hanno visto i risultati.
E allora gli porgi la matita copiativa e la scheda già aperta in mano. Loro, con sguardo fiero, ti consegnano il loro bastone e con fare deciso si dirigono verso la cabina che gli hai appena indicato. Una breve attesa, li vedi uscire e inserire quel foglio piegato nella scatola di cartone coscienti, come quei ragazzi al primo voto, che hanno fatto l’unica cosa che andava fatta e che questa domenica è un po’ più di festa delle altre. Lo sanno anche intere famiglie, che tutte insieme vengono a votare, magari con precedenti serate di accesi confronti attorno al tavolo della cucina su come votare. Lo sanno le mamme che arrivano coi loro piccoli, che incuriositi ci guardano intenti a scorrere i faldoni elettorali alla ricerca del nome della loro mamma che dovrà esprimere il proprio voto. Durante l’attesa lei fa una sorta di telecronaca di cosa stiamo facendo, che ognuno di noi ha diritto di votare e che è importante votare. Il bambino annuisce, sembra aver capito meglio di molti più grandi di lui. Lo ha capito, come forse quelli che meglio di tutti noi sanno cosa sia la democrazia, perché, da dove provengono, non ce l’hanno nemmeno. Sono ex immigrati, ormai cittadini italiani ed europei a tutti gli effetti. Anche loro con lo sguardo incuriosito dei bambini, l’emozione dei diciottenni e la determinazione dei signori col bastone. Lo sanno perché per poter inserire nell’urna quel foglio piegato hanno dovuto lottare. Il loro nemico non era il nazi-fascismo ma la burocrazia italiana e hanno vinto loro. E allora questa grande occasione proprio non se la possono perdere. Tutti lo sanno, tranne chi, per rassegnazione, per disinteresse, per calcolo politico, per il calcio in tv, perché aveva di meglio da fare, non è andato al seggio. Tutti, tranne chi se ne lava le mani.
Ore 22.56, il seggio sta per chiudere. Dalle finestre della scuola si vede una signora correre. Entra e si dirige con passo quasi militare verso il nostro seggio: “Devo votare”. I giochi oramai sono fatti, le percentuali al 30% su scala nazionale sono praticamente note, ma a lei non interessa. Lei non lo fa per l’idea che il suo avrebbe cambiato la situazione, lo vuol fare perché votare è un diritto, e lo fa in nome di tutti quelli che quel voto non ce l’hanno, di quelli che per averlo hanno dovuto lottare, in nome di quelli che quel giorno proprio non hanno potuto, in nome della democrazia che non sarà perfetta ma che ci da qualcosa come nessun altro sistema: la libertà. La libertà che, per dirla con le parole di un grande, “non è star sopra un albero”, libertà “è partecipazione”.
E allora grazie, grazie a chi ha votato e grazie a chi voterà.
E allora viva, viva la democrazia e viva la partecipazione democratica.