Per una riflessione sul risultato elettorale, il rapporto elezioni-conflitto, perchè bisogna costruire il partito. Partire da LeU per tutta la sinistra.

Elezioni, chi vince e chi perde.
Il primo dato è il crollo dei partiti tradizionali, in primo luogo il PD e immediatamente FI. Il rifiuto delle forze politiche tradizionali si è espresso transitando dall’astensionismo al voto “populista”: 5 Stelle, Lega. La semplice accezione negativa del “populismo“ non ci serve ad analizzare il processo di identificazione fra la maggioranza della popolazione e la proposta di governo di queste forze politiche. Quali punti programmatici conquistano l’assenso del 50% del paese, quale proposta viene assunta come credibile rispetto alla crisi di settori sempre più ampi della società?

Si vota come in America.
Registriamo un dato ormai comune a tutti i paesi occidentali, i risultati elettorali non ratificano più la divisione classista e ideologica della società e i partiti non rappresentano più divisioni e contrapposizioni sociali. La competizione elettorale avviene su elementi mediatici, la capacità del leader, l’individuazione di elementi di programma che colgono immediate sensibilità. Nessuno si misura su un progetto complessivo di società, su elementi generali di riforma sociale . Non è più il voto di appartenenza né l’adesione a una prospettiva generale di cambiamento, è il voto di “scambio”: ti voto per quel punto di programma, per la tua utilità di fase.
Per quanta riguarda un primo bilancio, approssimativo, del dato elettorale, rimando ad altra sede il quadro nazionale delle forze politiche maggiori. Lega e 5 Stelle, sono il riflesso dello spostamento della politica al piano della suggestione. E’ importante analizzare e comprendere la nostra esperienza elettorale , a livello nazionale e nella nostra regione a dominio leghista .

Noi , una brutta campagna elettorale.
Non ci hanno favorito l’impostazione della campagna nazionale, la definizione di un programma elettorale poco chiaro nell’enunciazione, vuoto in alcuni argomenti, dall’Europa alla questione della pace e del disarmo, fino a quella del Jobs Act e della Fornero. La stessa costruzione delle liste è stata una procedura ademocratica e ha visto l’impossibilità di valorizzare le compagne/i espressione dei territori e delle lotte locali.
La domanda che dobbiamo porci non è tanto se una maggior radicalità programmatica, una gestione più accattivante dei momenti di propaganda, la possibilità di sottrarsi alla trappola del voto utile e di non essere accreditati come sinistra acrimoniosa del PD, ci avrebbe comportato un risultato elettorale meno avvilente. Questo sicuramente e certamente una riflessione sulle responsabilità del gruppo dirigente va fatta. Ma la questione è se la prospettiva della costruzione di un soggetto politico di sinistra avrebbe comunque potuto emergere da questo percorso, se e come nella sostanziale sconfitta elettorale ci siano ancora i margini per riprendere in mano la sostanza del progetto: costruire un partito di sinistra.

Il capitalismo non ci vuole più bene.
Credo che la nostra riflessione debba partire dal dato sempre presente ma mai assunto come definitivo su come il capitalismo sia uscito dalla crisi. La scelta ridefinire i rapporti all’interno dei settori produttivi, di riequilibrare la distribuzione della ricchezza a favore della speculazione finanziaria, di rinunciare a un modello di tenuta sociale in cui parte del plusvalore fosse destinato a salari, pensioni, servizi, tutela ambientale.

Nemmeno più sfruttati.
La scelta è quella di collocare settori sempre più ampli della popolazione mondiale e dei singoli stati, al di fuori del ciclo produttori-consumatori, di renderli del tutto marginali socialmente e di restringere sempre più il quadro della popolazione “attiva” quindi politicamente e socialmente computabile. Si è definitivamente estinto il modello di società in cui ognuno è portatore di diritti universali, lavoratore-cittadino-consumatore a cui la società riconosce diritti e responsabilità. Con la nuova dell’industria 4.0, con lo sviluppo di tecnologie di controllo sociale , con lo spostamento della ricchezza prodotta sempre più indirizzata al capitale finanziario, si restringe progressivamente la quota di mondo del lavoro e di consumatori- utenti necessari per mantenere un equilibrio nella sfera produttiva e sociale. Quello che Marx definiva l’esercito di riserva della mano d’opera oggi non ha motivo di esistere; è semplicemente uno strato sempre più ampio di popolazione marginale la cui esistenza va supportata con politiche compassionevoli e di assistenza. La competizione per essere assunti nel modello inclusivo e di usufruirne dei privilegi è sempre più aspra come è sempre più ridotta l’area che comprende il settore privilegiato.

”Al centro del sistema economico mondiale, nei paesi industrializzati, il “capitalismo estrattivista” opera attraverso la privatizzazione delle imprese pubbliche e dei beni comuni come istruzione, sanità, conoscenza, assistenza e previdenza sociale, spazi pubblici. Questo processo di sottrazione ha bisogno di un regime politico che agisca per conto degli interessi privati e che sia in grado di “gestire” o di “mettere in sicurezza” le popolazioni recalcitranti: è il regime neoliberista, autoritario e di polizia, che opera formalmente nello stato di diritto, ma che è pronto a operare nello stato di eccezione nei territori considerati d’interesse strategico, sulle popolazioni superflue e in generale sulle nuove “classi pericolose” (disoccupati, sottoccupati, precari, lavoratori informali, immigrati, attivisti e organizzazioni dichiarate sovversive)”1) Veracini. Esclusi. Derive e Approdi.

E’ ancora riformabile il capitalismo?
E’ questo un modello sociale non estensibile, non riproponibile, le cui condizioni di esistenza sono l’esclusività, in cui le possibilità di accesso sono sempre più aspre e elitarie. Sono stati progressivamente esclusi i settori non produttivi: gli anziani, gli immigrati, i giovani dequalificati, i disabili … ma anche settori produttivi marginali, parte del lavoro pubblico non funzionale. Il modello di società che ci viene proposto, anche a livello istituzionale, prevede “dispositivi giuridici, finanziari, logistici e algortimici volti a «escludere» includendo in maniera differenziale”.
La coscienza di questo processo è ormai divenuta condivisa e comune, non tanto come possibilità e prospettiva di scalata sociale, ma come sensazione diffusa di emarginazione, di insicurezza , di precarietà. In questo quadro la sinistra è mancata nella capacità di una risposta collettiva, per la promozione di una identità classista che segnasse il contenuto della propria politica. Si è cosi perso il senso dell’appartenenza a una comunità solidale e a una coscienza collettiva.

Populista chi?
E’ il caso di riproporre una riflessione su la modalità con cui oggi si definisce il “populismo”. Da accezione storica che richiamava all’unità del popolo contro le elites, a partire dalle condizioni di vita e del vuoto di prospettive e speranze della maggioranza della popolazione, il “populismo” è diventato strumento della destra non più contro il potere ma contro altra parte del popolo. E’ la destra che indirizza il disagio collettivo contro altri sfruttati, qualificandoli competitori nella distribuzione della tutela sociale. Ma l’insulto “ populismo” è anche quello comunemente rivolto dal potere a tutte le rivendicazioni che tentano di mettere in discussione gli ingiusti criteri di distribuzione della ricchezza.

Ma la destra non è populista.
Non si possono nascondere le pesanti contraddizioni da cui partono le iniziative di una destra che ormai ha assunto una dimensione internazionale, o la proposta di governo del Movimento 5 Stelle che assume forti elementi di compensazione sociale senza farne oggetto di riflessione sul cambiamento di paradigma economico e sociale. Non basta difendere semplicemente l’esistente, quando anche la semplice tenuta delle conquiste realizzate diventa impraticabile. Nello stato delle cose, in mancanza di una prospettiva o solo speranza di cambiamento vinceranno le destre che lavorano per la divisione e contrapposizione dei ceti che fino a ieri erano riferenti della sinistra.

Proviamo ancora con le riforme?
Va rimossa l’illusione che sia, in qualche maniera, riproducibile la grande offensiva che la sinistra politica e sociale seppe attuare fra gli anni 60’ e 70’ conquistando in Italia e in Europa, avanzate condizioni sociali e salariali e l’attuazione di importanti elementi di democrazia e di diritti civili. Oggi nella fase del potere assoluto delle grandi multinazionali finanziarie, in questi rapporti di forza del tutto sfavorevoli abbiamo l’esigenza di costruire un fronte di risposta, perlomeno europeo. La ripresa dei conflitti a livello locale è il presupposto per lo sviluppo di elementi di coscienza e di pratica politica.

La resistenza al neoliberismo, un processo sociale.
Le esperienze diffuse dell’economia autocentrata, dell’autoproduzione, dell’autogestione di realtà e settori produttivi, delle tutele sociali autogestite, sono elementi di contrasto e alternativi alle logiche di mercato. Come le forme di autogoverno e di democrazia diretta, che si pongono come alternativa reale allo svuotamento delle istituzioni locali sono le condizioni per costruire, all’interno dell’attuale, forme di alternativa democratica, politica e sociale. Oggi il nostro progetto, il progetto delle sinistre, non può che essere quello di un radicale cambiamento della società. Va ridefinito l’asse strategico in cui può muovere la battaglia della sinistra. Apriamo una fase di transizione che veda l’iniziativa sul piano della rappresentanza istituzionale, su quello dell’iniziativa sociale, sulla costruzione diretta di strumenti e pratiche alternative.

Le elezioni: un terreno di battaglia specifica, verifica del radicamento politico e sociale.
Siamo caduti nella trappola-illusione che le elezioni possano essere un passaggio, una occasione per la costruzione di un nuovo partito. Abbiamo verificato come ancora una volta, per la sinistra, la scadenza elettorale, la proiezione istituzionale non possa essere funzionale alla costituzione di una forza politica. La rappresentanza non può essere sostitutiva della presenza sociale. Ma allo stesso tempo non possiamo ignorare il peso, nella nostra battaglia, di una presenza organizzata e combattiva in tutti gli organismi istituzionali. Nostro compito resta perciò quello di coniugare conflitto sociale e battaglia nelle istituzioni.

Ci serve un partito. Il partito per cambiare la società.
Perseguiamo l’obbiettivo di una trasformazione radicale della società . Il nostro obbiettivo è quello di una società di eguali, giusta, libera. La nostra proposta è quella di un “partito strumento della trasformazione sociale”. Oggi definire il nostro obbiettivo e indicare il processo di transizione è essenziale. Vogliamo cambiare la società, consapevoli che un modello di valori alternativi si può costruire solo se l’attuale assetto economico-sociale viene cambiato radicalmente.

Il partito della transizione, di tutte, di tutti.
Dobbiamo ripensare al partito che vogliamo costruire, affrontiamo un percorso che non sarà né semplice né breve ma che dovrà rappresentare e prefigurare il modello di società che vogliamo costruire. Un partito di attivisti sociali, di quadri e militanti, ma anche il partito dei pensionati, dei disoccupati , delle casalinghe, dei giovani. Il partito che rappresenta la complessa articolazione della società, le sue contraddizioni, le battaglie sociali e politiche. Un partito che agisce direttamente in tutti i rami del conflitto e non si limita a rappresentarlo. Un partito che riconosca e pratichi, al suo interno, il diritto alla diversità, la centralità della persona, la democrazia e il diritto alla scelta come valori non alienabili. Un partito comunità composto di cittadine/i e in cui la politica, la democrazia, l’uguaglianza, la solidarietà sono progetto politico e pratica interna.

Il partito modello sociale.
Un partito così esiste se è espressione dei territori, se le realtà di base sono effettivamente partecipi delle analisi e delle proposte , se i processi decisionali si misurano con il consenso e la condivisione degli iscritti, dei simpatizzanti, degli attivi. Se democrazia e partecipazione non sono solo enunciate ma trovano concreta espressione in regole e procedure. Il partito deve essere strumento concreto di conoscenza, di analisi delle condizioni sociali, delle realtà economiche; condizione essenziale per l’inchiesta politica e la verifica delle iniziative e campagne svolte. Il rapporto territori-centro deve diventare la modalità con cui si opera per la costruzione e la condivisione delle scelte politiche.

Mauro Tosi, segreteria regionale Sinistra Italiana del Veneto

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