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Fermi tutti, ragioniamo su cosa conta

Si respira un’aria pesante, pesantissima, dentro e intorno al PD. Un clima di contrapposizione che, per tensione, ha un solo precedente: la scelta di superare l’esperienza del PCI e dare vita al PDS. Per dire come allora una comunità coesa politicamente si divise e lacerò anche a livello di rapporti personali, basterebbe questo singolare episodio che mi coinvolse personalmente. Si celebrò in quei giorni il matrimonio di un mio carissimo amico e compagno e il ricevimento si tenne a Firenze presso la storica Casa di Popolo a San Bartolo a Cintoia. Si discuteva con passione e animatamente al mio tavolo – io a favore della “svolta”, gli altri commensali decisamente contro – e uno dei volontari che in quell’occasione fungeva anche da cameriere, ascoltate le mie posizioni, mi disse che non mi avrebbe più servito e che, se avessi voluto continuare a mangiare, mi sarei dovuto recare direttamente in cucina. Risi pensando che scherzasse. Non scherzava!
Negli ultimi quattro anni, nella mia città, ho coltivato un rapporto personale e politico con un compagno, il segretario del mio partito, fatto di assoluta condivisione di progetti e di strategie, di comune visione dello stato e del futuro del PD e della sinistra, di sintonia sul modello di società da costruire.

Oggi, la nostra aspra (ma rispettosa) contrapposizione sul fatto che sia più utile per il Partito e il Paese celebrare prima il congresso o posticiparlo a dopo le elezioni, mi ha indotto a riflettere sul fatto che siamo in una fase in cui la rivendicazione delle proprie posizioni sembra caratterizzarsi come questione oramai di principio, più che politica. Ritengo utile, allora, fermarmi un attimo, rimettere in fila i dati politici oggettivi e valutare serenamente le possibile e adeguate soluzioni.

Il dato incontestabile da cui partire: dopo il 4 dicembre, una stagione politica si è definitivamente esaurita. Si è esaurita la “spinta propulsiva” innescata dal 40% alle europee. Credo si possa oggettivamente convergere anche sul fatto che proprio quel risultato sia stato, paradossalmente, l’inizio di quella fase che è culminata nella sconfitta elettorale del referendum costituzionale. In virtù di quel successo, è saltata ogni forma di mediazione interna al partito e nell’azione di governo. La maggioranza del PD ha ritenuto di trarre da quella clamorosa vittoria, la legittimazione per scelte che, alla luce dei fatti, si sono rivelate rovinose. Indirizzi politici approvati in direzione e poi sostanzialmente stravolti negli atti parlamentari (licenziamenti collettivi, Italicum, ecc.), determinando fratture gravi e, ad oggi, mai ricomposte (dimissioni del capogruppo alla Camera, sostituzione d’imperio di 10 deputati nella Commissione Affari Costituzionali); approvazione di fondamentali atti in materia di mercato del lavoro o sulla scuola, giusto per citarne solo alcuni, senza alcun confronto con le forze sociali. Non concertazione, confronto. Intanto, però, non ci si accorgeva che a furia di assunzioni e bonus indifferenziati, entrambi finanziati in debito, crescevano le sacche di disuguaglianza e ingiustizia sociale. Non ci si accorgeva della progressiva e preoccupante disaffezione non solo dalla politica ma dalla militanza. Le amministrative prima e l’ingiustificato ed incomprensibile referendum (perché voluto da chi le riforme le aveva proposte e fatte approvare) dopo, ci hanno condotti alle forti fibrillazioni di questi giorni.

Oggi, quindi, nessuno contesta il fatto che il PD ha bisogno di darsi una identità nuova e definita, regole nuove, nuove prospettive. Tre sono le opzioni in campo. La prima, quella sostenuta da gran parte della maggioranza del PD vorrebbe le elezioni subito. A sostegno di tale tesi la necessità di non andare, in una situazione del genere, ad una conta interna che si teme devastante per la sopravvivenza stessa del partito. Oltre a ciò, la convinzione di poter capitalizzare il 40% di coloro che hanno votato sì al referendum. Oggettivamente manca, in questo contesto, un dato di fondo non secondario: un PD che si riconosce sfuocato, con quale programma politico cercherà consensi? E’ facile immaginare che sarà quello proposto dal candidato premier. Ebbene, in caso di auspicabile, ma improbabile, vittoria alle elezioni, che senso avrebbe un congresso? E’ pensabile un’assise che identifichi un partito ed un programma diverso da quello uscito vittorioso dalle primarie e dalle elezioni? In questo schema, quindi, un congresso avrebbe unicamente senso in caso di esito elettorale negativo. E sarebbe, obiettivamente, una “notte dei lunghi coltelli”.

L’ultima proposta in ordine di tempo, è quella del Ministro Orlando che ritiene non utile un congresso ora e indica in una sorta di Bad Godesberg il modo per rifondare e dare una identità completamente diversa al PD. Riconosce il congresso come è una tappa fondamentale di questo percorso, ma lo posticiperebbe per evitare – anche qui – il rischio della conta e della pura e semplice definizione di nuovi organigrammi. Stessa obiezione: se si andasse a congresso dopo una “Conferenza politica e programmatica”, questa pare di intuire sia la sua proposta, che ha già definito volto e anima del nuovo PD, a cosa servirebbe se non a definire il leader e l’organigramma che di questa svolta siano interpreti e garanti?

Sulla base di tutte queste riflessioni che ritengo oggettive, mi chiedo e chiedo, perché drammatizzare così tanto il congresso? Posto che la “conta” è purtroppo uno dei presupposti su cui il PD è nato (Parisi docet), io credo che il congresso, probabilmente, sposterebbe l’attenzione non tanto sul chi conta, ma sul cosa conta. Non ci arruoliamo in nessuna crociata. Non ci lasceremo trascinare in nessun ipotetico bagno di sangue. Sosteniamo la piattaforma di un Signore (la maiuscola non è un refuso) che vuole confrontarsi e misurarsi sulla base di un progetto politico. Nessuna tattica, nessun tatticismo. Il Congresso non è per noi una petizione di principio. Ma di buon senso.

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