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Fuori e dentro le convention democratica e repubblicana

Novembre non è mai sembrato così vicino a Luglio se si parla con gli appassionati di politica statunitense. I democratici hanno salutato Philadelphia, dove si è tenuta la convention che ha nominato Hillary Clinton, pochi giorni fa. Mentre i Repubblicani si qualche giorno prima si sono stretti intorno a Donald Trump, perdendo qualche notabile (un esempio su tutti: la famiglia Bush) ma guadagnando il consenso di fasce di società sempre più esposte alla deriva estremista. I sondaggi, si sa, lasciano il tempo che trovano. Tuttavia molti degli ultimi rilevamenti sembrano suonare un campanello d’allarme per i sostenitori della Clinton: la sua marcia verso la Casa Bianca non sarà una passeggiata. Più ancora dei sondaggi, però, preoccupa lo spostamento a destra del consenso popolare: un fenomeno che riguarda tutto l’Occidente e che troppo spesso viene liquidato con fare un po’ snob da politici, commentatori provenienti da diversi schieramenti e persino da quel che rimane dell’opinione pubblica “illuminata”.

A Cleveland, dove si è riunito il Grand Old Party (Repubblicani) è andato in scena uno spettacolo ad hoc per intercettare i sostenitori di Sanders delusi dalla vittoria della sfidante democratica e gli indecisi della classe media che si impoverisce anche a causa delle politiche economiche portate avanti dall’establishment democratico e da quello repubblicano (contro quest’ultimo Donald Trump aveva lanciato la sfida durante le primarie). Il discorso del trionfatore ha avuto una consistente pars destruens dedicata ai demeriti della sfidante dem, ma anche una pars costruens da non liquidare troppo velocemente: promette tutele sociali, isolazionismo in politica estera e, soprattutto, la revoca dei trattati commerciali internazionali che hanno causato negli anni la perdita di milioni di posti di lavoro ben retribuiti. Quest’ultimo punto era uno dei cavalli di battaglia del programma di Sanders; uno di quei punti programmatici che è stato impossibile trasporre nella piattaforma democratica in vista di Novembre, complice anche la scelta della Clinton di un vice presidente (Tim Kaine) favorevole al TPP così come alla deregolamentazione del sistema finanziario, altra grande promessa disattesa di Bernie. A Ted Cruz, secondo classificato, l’improbo compito di traghettare i consensi della destra neoliberista in economia e libertaria nei diritti, già vicina al Tea Party, verso le elezioni generali. Egli non ha fatto un esplicito endorsement al vincitore ma ha ribadito l’importanza di ancorarsi alle radici repubblicane: ha rivendicato la libertà di scegliere dove curarsi, dove mandare i figli a scuola e di come configurare la propria sostenibilità durante gli anni dell’anzianità, sferrando duri attacchi ai timidi elementi di sistema di welfare che l’amministrazione Obama aveva tentato di implementare. Cruz ha rivendicato anche la libertà per tutti i cittadini statunitensi di esercitare il proprio credo religioso e di non essere spiati dallo Stato che tende a ledere la privacy dell’individuo nel tentativo di combattere il terrorismo, rispedendo così ai mittenti democratici le accuse di xenofobia e politiche liberticide che venivano mosse al fronte repubblicano. Contravvenendo in questo modo in parte all’impostazione generale data da Donald Trump alla campagna, ma cercando di rinsaldare la base più tradizionalista del GOP. A Paul Ryan è toccata poi la giustificazione della nomination ad un personaggio giudicato anche dalla sua base “impresentabile”: in un mondo in continua evoluzione nel quale la domanda politica proveniente dalla società è mutata, il Partito Repubblicano si intesta la parte di interprete di quel cambiamento, a differenza dei democratici che ripropongono una nomination espressione dell’establishment, di Wall Street, di una stagione politico-economica che mostra oggi i suoi limiti in modo drammatico. Per i fan di Trump, poco importa che anch’egli è un miliardario, che vuole offrire più sgravi fiscali ai ricchi e alle multinazionali aggravando così le diseguaglianze economiche; né interessa loro che il businessman dividerebbe ulteriormente il paese sulla base del colore della pelle o della religione.

Ciò che emerge è che la rabbia verso l’1% è tale che in molti preferiscono la sua onesta, schietta, brutale trasposizione politica che però promette la rivolta, a quella Hillary Clinton che in molti considerano (con una rappresentazione volgare ma non del tutto a torto) sempre espressione di quell’1% ma fintamente “dal volto umano”, una patina di “buonismo” che nasconderebbe una cinica carrierista, volubile nelle opinioni ma sempre dalla parte del potere costituito. Proprio come accade per i democratici, anche per i repubblicani è il dato della scarsa popolarità dell’avversario a costituire la principale fonte di speranza di successo della propria parte.

Se l’unità del partito non è stata un risultato palpabile della convention repubblicana, è senza dubbio stata il dato politico più rilevante di quella democratica. Bernie Sanders, sconfitto nelle urne delle primarie, ha concesso la nomination a Hillary, rivendicando alcune conquiste sulla piattaforma programmatica (due su tutte l’estensione dei sussidi al diritto allo studio e l’innalzamento del salario minimo a 15 dollari) e, pur dichiarando di tornare in Senato come Indipendente, ha assicurato di fare tutto il possibile per convogliare il suo sostegno sulla candidata democratica a Novembre. Lo ha fatto al prezzo dei fischi di parte dei suoi sostenitori; verosimilmente quella parte che voterà per Jill Stein, candidata dei Verdi, i quali hanno quintuplicato le donazioni dal momento del ritiro del Senatore del Vermont dalla corsa democratica. Gli spot elettorali migliori per la Clinton sono stati quelli provenienti da personalità di grande rilievo e soprattutto di enorme popolarità del partito: Elizabeth Warren, senatrice nota per le battaglie contro Wall Street, Joe Biden, vicepresidente amatissimo per la sua genuinità e Michelle Obama, la first lady che, più di ogni altro esponente di sesso femminile attualmente alla ribalta, ha saputo combattere contro le discriminazioni di genere grazie alla sua integrità morale, alla sua forza gentile e alla sua caparbietà nel sottolineare la preponderante importanza della cultura e dell’intelligenza sopra le forme estetiche nel valutare le ragazze e le donne. L’endorsement di Sanders, unito alle loro espressioni di stima per la Clinton, ha rinfrancato una l’altra parte dell’elettorato progressista di Bernie, che sa di poter contare su una squadra di personalità credibili, superando l’antipatia e la diffidenza verso la candidata.

L’unità del partito è stata ritrovata però ad un prezzo, e solo il risultato di Novembre saprà dirci quanto caro: la convention democratica è stata autocelebrativa oltre il ragionevole. Oltre a qualche punto programmatico più volte sottolineato, il vero punto di forza dei democratici, da loro stessi ossessivamente ripetuto, sembra essere quello di NON essere repubblicani o Donald Trump. A vario titolo, tutti i più noti esponenti dem sembravano compiaciuti dell’essere lontani dalla barbarie repubblicana, dall’intolleranza verso chi è differente, dalla violenza dei toni di Cleveland, dalla corsa agli armamenti per difendersi da nemici inventati. Come ha giustamente sottolineato Michelle Obama “quando gli altri sferrano colpi bassi, noi voliamo alto”. Ma se resistere all’imbarbarimento del dibattito pubblico è certamente prova di civiltà, i democratici statunitensi (in buona compagnia dei progressisti europei) non sembrano accorgersi che verso quello stesso imbarbarimento stanno scivolando a grande velocità gli elettori di cui dicono di voler difendere gli interessi. La prova di civiltà sembra infatti essere necessaria ma non sufficiente a far la differenza per molti indecisi e molti elettori che semplicemente si asterranno. Bernie Sanders ha avuto il merito di riuscire ad intercettare una parte di quel consenso: quello della classe media che tende sempre più a votare contro il sistema e che in mancanza di un’opzione del tutto credibile sceglie la protesta o l’astensione. Hillary Clinton ha vinto la nomination grazie all’appoggio determinante della parte afroamericana e ispanica del Partito Democratico che tuttavia è anche quella che mai avrebbe votato per i repubblicani, laddove la base elettorale di Sanders (si stima almeno un terzo dei 13 milioni) potrebbe farlo. Oltre la mitologia del leaderismo statunitense, bisognerà convincere quegli elettori a votare sul programma e non sulla persona, nella consapevolezza che la sfida “convincimi a votare per Hillary o per Trump senza nominare l’altro come motivazione” ha già sostituito lo slogan “la candidatura di Sanders significa che non dobbiamo più votare per il meno peggio, ma per quello migliore di tutti”: un passaggio che rischia di agevolare l’astensione e con essa, per come è configurato il sistema elettorale USA, la vittoria repubblicana.

Fra gli esperti di flussi elettorali si dice che gli indipendenti saranno determinanti, e quegli stessi indipendenti non voterebbero mai per Trump, determinando così la presidenza democratica. Oltre le dinamiche di breve periodo che ci terranno col fiato sospeso da qui a Novembre, è però necessario analizzare con attenzione quelle di medio-lungo. Queste ultime, con lo spostamento quasi sistematico dei ceti popolari a destra e l’astensione in aumento in tutte le liberaldemocrazie occidentali, sembra consegnarci un quadro inquietante. Infatti, anche qualora Trump non arrivasse alla Casa Bianca e i vari esponenti dei partiti xenofobi europei non vincessero le elezioni, la consistente fetta di cittadini che li hanno sostenuti continuerà a vivere e agire nelle nostre quotidianità, politiche e non. Episodi di intolleranza, violenza ed espressione cruenta di malessere sociale continuano ad animare le pagine dei nostri giornali, restituendo il quadro di una società sempre più divisa e sempre più carica di odio. Una società composta da individui vittime delle crescenti diseguaglianze, dell’ingiustizia eretta a sistema complessivo, del blocco dell’ascensore sociale e della guerra fra poveri, nei confronti dei quali l’offerta politica di rappresentanza è inadatta a riappacificarne i dissidi e insufficiente a placare le tensioni autoritarie, razziste, di giustizia fai-da-te. La società occidentale, in mancanza di lotta di classe, preferisce lo scontro di civiltà. In mancanza di dialettica destra-sinistra, si accontenta del basso contro l’alto. In mancanza della rivoluzione, tende alla rivolta e alla reazione.

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