“Tornare in Italia? Se potessi tornerei subito”. Se chiedete a uno dei tantissimi giovani nati tra gli anni ’80 e gli anni ’90 e che attualmente vivono e lavorano all’estero, quali intenzioni abbia per il proprio futuro, vi risponderà così. Se ci fossero le condizioni salariali, di sicurezza sociale, di fiducia nel percorso che si ha di fronte, se il nostro Paese mettesse in campo un’offerta competitiva in termini di prospettive di realizzazione, non ci sarebbero dubbi sull’inversione del fenomeno di fuga che oggi appare inarrestabile. Gli storici contemporanei definiscono quello intercorso tra il 1870 e il 1970 come il secolo dell’emigrazione italiana. Dopo la breve parentesi tutto sembra annunciare un nuovo secolo dell’emigrazione. E’ una generazione, quella tornata di recente al centro del dibattito pubblico a causa delle sue scarse speranza di pensionamento, incitata alla subalternità dalla retorica sul futuro, che come è noto non è il presente, messa in attesa, abbandonata alla competizione esacerbante per quei pochi spiragli che si aprono, tentata dal disimpegno nella solidarietà e da una prospettiva di emancipazione meramente individuale e mai collettiva.
SOLO SOLUZIONI TAMPONE – In questo contesto tutti gli ultimi governi hanno lanciato allarmi e proclami ma difficilmente si sono discostati dal proporre soluzioni tampone e piccoli interventi spot. Dagli anni ’90 in poi i portafogli si sono riempiti di tessere dello studente di ogni tipo con agevolazioni sempre più marginali e sempre meno influenti e si è sempre aggirato l’ostacolo principale: il modello di sviluppo e gli strumenti che ne possano misurare l’efficacia. Non servono bonus, non servono piccoli ritocchi, non serve una logica da Pil applicata a una generazione, ma un progetto di trasformazione radicale di un sistema che non funziona. Non aiutiamo nemmeno la nostra industria se ci limitiamo ad assecondarne le richieste senza aumentarne anziché diminuirne la responsabilità sociale.
IL SOGNO DEI GIOVANI – Mi chiedo se ci siamo mai fermati a pensare che il sogno della maggior parte dei nostri giovani non è essere popstar o calciatori, è essere, per fare un esempio, dei bravi insegnanti, in un sistema in cui a un nato negli anni ’80 si richiede lo stesso coraggio che si chiede a un missionario in condizioni di scarsità di mezzi e di precarietà esistenziale. Mi chiedo se non sia il caso di occuparsi di una generazione il cui lavoro è sfruttato, spesso a titolo gratuito, con tante e sempre più nuove formule che vanno dallo stage al “ti fa curriculum”. Perché il problema di come si esce dal mercato del lavoro riguarda chi è riuscito ad entrarvi, quindi secondo i dati Istat non riguarda il 60% delle persone di età compresa tra i 15 e i 34 anni.
I 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile indicati dall’ONU mostrano già una quantità di strade da percorrere e ancora colpevolmente inesplorate nel nostro Paese, dove anziché istituire un’agenzia preposta alla definizione dei mezzi abbiamo derubricato la faccenda e spacchettato il piano in singole attenzioni inviate ai ministeri di competenza, con il rischio di depotenziare tutto l’impianto della proposta.
LE CLASSIFICHE DELL’ITALIA – Appena un mese fa dagli economisti Sachs, Layard, Helliwell, Becchetti, Bruni e Zamagni, nel corso della presentazione del rapporto mondiale sulla felicità 2016 abbiamo appreso che a fronte del posizionamento che ci si poteva attendere nelle classifiche di Pil e salute, l’Italia è tra gli otto peggiori paesi del mondo nella classifica dei progressi/regressi sulla soddisfazione di vita nel periodo che va dalla crisi finanziaria globale ad oggi, preceduta solo da Grecia, Egitto, Botswana, Arabia Saudita, Venezuela, Yemen e India.
Se si prendono in considerazione i sei strumenti di misurazione utilizzati, il Pil reale pro capite, l’aspettativa di vita in buona salute, l’avere qualcuno su cui poter contare, il livello di corruzione percepito, la generosità, il livello di libertà percepito per compiere le scelte di vita oggi ci sono 50 paesi migliori dell’Italia. Premesso che ci sono alcuni crocevia necessari sempre evocati e poco perseguiti (incentivi alle start up, digitalizzazione, innovazione, sostegno ai progetti creativi) sarebbe già un’ottima agenda quella che ripartisse da un tentativo di incremento di quei sei indicatori del rapporto sulla felicità, ma, mi rendo conto, per fare questo bisogna scegliere di stare da una parte ben precisa, di dare priorità ad alcune scelte che potrebbero non riguardare almeno in prima battuta l’1% dei super ricchi.
Forse, prima di chiederci se abbiamo o meno una classe di industriali che hanno fatto il bene del Paese più dei sindacati, dovremmo chiederci se abbiamo una visione, se siamo in grado di garantire a un giovane la libertà di fare delle scelte di vita basate sulla propria vocazione professionale, di come farlo sentire socialmente sicuro in una comunità che lo sostenga con servizi pubblici competitivi, dall’accesso all’istruzione alla sanità e strumenti per fare rete e cooperare. Una comunità solidale basata non sulla mera efficienza ma sul benessere sostenibile, in altre parole, un’economia civile.
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La foto di copertina: da (valigiablu.it)