In Turchia fallisce il golpe militare. La gente scende in piazza e i soldati si ritirano. Il Paese è nel caos, almeno 90 morti e oltre 1500 golpisti arrestati e rimossi 5 generali e 29 colonnelli. Il potere sempre più assoluto del presidente Recep Tayyip Erdoğan ne esce rafforzato. Ed è inutile sottolineare che in Turchia aumenteranno le limitazioni alla libertà laica e democratica. Il diritto all’uguaglianza, alle pari opportunità e ai diritti dell’uomo sarà sempre più represso. Ma è anche da considerare che il potere del presidente è stato difeso da un un vasto sostegno popolare, prevalentemente originato dall’Islam radicale e che gli interventi per militarizzare le forze di polizia hanno avuto l’effetto protettivo sperato di una “guardia presidenziale”.
L’importanza strategica della Turchia ha inoltre un peso non indifferente, e non sono pochi i Paesi occidentali che per questo ne difendono l’operato. La Turchia è uno stato della NATO ed ha l’esercito più forte dopo quello degli Stati Uniti. E’ il Paese che si pone da cuscinetto fra Siria ed Europa e sono in atto numerosi interessi commerciali proprio con l’Europa e l’Occidente ma anche il Paese dove sono appena stati presi gli accordi pagati a caro prezzo dall’Unione Europea per la gestione dei flussi migratori dei rifugiati siriani.
Ma è all’interno del Paese che dobbiamo ricercare la natura di quello che sta succedendo. La Turchia è una repubblica parlamentare sin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1923. Il presidente Erdoğan è capo dello Stato dopo esser stato primo ministro dal 2003 al 2014, negli ultimi 11 anni ha permesso una importante crescita economica e la stabilità politica. D’altro canto la sua popolarità si sta riducendo progressivamente più all’estero che nel proprio Paese. Numerosi sono gli scandali di corruzione che lo hanno coinvolto, la censura in più occasioni è stata imposta a Internet e alla stampa, sono stati fatti vari tentativi di rafforzamento del controllo del potere esecutivo sul giudiziario. Ma non solo le ambiguità nei rapporti con lo Stato Islamico in Siria, le azioni militari contro le milizie curde ed i difficili rapporti con i vicini russi e i governi sciiti hanno compromesso l’immagine estera della Turchia. Ma tutto questo passa in secondo piano nella mente del leader turco che ha come obiettivo quello di riformare la Costituzione turca e trasformare la Turchia da repubblica parlamentare in repubblica presidenziale. Questo permetterebbe di aumentare l’ingerenza dell’Islam nella “cosa pubblica” e soprattutto di accrescere il suo potere personale sia di controllo che di azione.
Va ricordato che in Turchia la laicità delle istituzioni è considerata un valore fondante dello stato, a partire dalla fondazione della repubblica nel 1923. Il 98% della popolazione è composto però da musulmani di cui il 68% è sunnita e il 30% è sciita. E ci sono molte pressioni perché la religione islamica entri di fatto nella sfera pubblica, amministrativa e decisionale, come del resto avviene nei Paesi arabi. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo – AKP, è il partito conservatore turco ed è il partito del presidente Erdoğan. Il secondo Partito è quello Popolare Repubblicano – CHP, è il più antico partito politico della Turchia e rappresenta la principale forza politica di centro-sinistra del Paese. La novità riguarda il Partito Democratico dei Popoli (Hdp, il partito dei curdi), guidato da Selahattin Demirtaş, che ha prevalso nell’Est della Turchia, dove si concentra la minoranza curda (circa il 20% della popolazione) ma ha anche saputo raccogliere consensi in città come Istanbul e Ankara.
Poi troviamo il Partito dei Lavoratori del Kurdistan – PKK, un partito politico e organizzazione paramilitare, sostenuto dalle masse popolari (prevalentemente agricole) del sud-est della Turchia ma attivo anche nel Kurdistan iracheno. In Turchia è un partito illegale, inizialmente il gruppo si ispirava al marxismo-leninismo e dal 1990 il PKK ha avuto rappresentanti parlamentari, inseriti in liste legali, presso il Parlamento turco. Ma il PKK ma è anche il gruppo terroristico che ha rivendicato molti attentati realizzati contro il Governo e la popolazione turca.
Ma i curdi e il PKK non sono l’unica spina nel fianco di Erdogan che ieri parlando in diretta tramite uno smartphone, ha detto: “La responsabilità del golpe è della rete gulenista“. Il movimento dell’Iman Fethullah Gulen ha negato qualsiasi coinvolgimento nel tentativo di colpo di Stato in Turchia. Gulen un tempo era alleato di Erdogan ma i rapporti tra i due si sono rotti durante l’inchiesta per corruzione del 17 dicembre 2013 che ha travolto il governo Erdogan. Ora Erdogan accusa Gulen di aver costituito un vero e proprio «stato parallelo» con l’obiettivo di deporlo. Di questa entità farebbero parte militari, politici, giornalisti, imprenditori. Il movimento di Gulen controlla effettivamente associazioni professionali e studentesche e no-profit, aziende, scuole, università, radio, televisioni e quotidiani di livello nazionale ed internazionale. Gulen ha in mano centri di istruzione privati in 110 Paesi, dalla Francia al Sudafrica, ha, inoltre, interessi finanziari nella gestione di Bank Asya che offre prodotti senza interessi come previsto dall’Islam.
Fethullah Gülen è considerato dai media come una delle figure più influenti nel mondo musulmano. I suoi sostenitori vedono il movimento di Gülen come una forma moderna e moderata dell’Islam, ispirata ad una interpretazione liberale e democratica della religione, che può fare da contrappeso all’estremismo islamico. Gli estremisti islamici hanno effettivamente contestato alcune sue iniziative, come il dialogo interreligioso, giudicandole come “deviazioni” dalla religione islamica. Tutti fattori che possono dar fastidio ad Erdogan propenso alla massima celebrazione del suo Ego in veste islamica radicale.