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Hasta siempre, Comandante: cinquant’anni non bastano per dimenticare

“Hai visto, è morto il Che”, mi dice un amico con lo sguardo stravolto e mi abbraccia commosso. Ero appena entrato, ricordo, nel grande atrio della Facoltà, a Napoli Fuorigrotta, dov’ero andato, mi pare, per controllare le date degli esami della sessione. La tragica notizia, mi disse il mio amico, veniva dalla lontana Bolivia, una regione di quella un po’ mitica America Latina, a quel tempo una terra molto immaginata anche se, in realtà, in Europa da non molti conosciuta. Non lo avevo saputo prima, né potevo aspettarmelo: quelle parole mi colpirono con violenza, con il bruciore di una scudisciata ed il dolore di una pugnalata; e così ce lo dicevamo l’un l’altro, il viso contratto e gli occhi di molti umidi di dolore e di rabbia. Non ricordo la data esatta – se fosse il 10 Ottobre, o più tardi – in cui venni a conoscenza di quel fatto sconvolgente: ma era in Ottobre, perché era prima dell’inizio dei corsi, che allora cominciavano nella prima decade di Novembre. Le comunicazioni a quel tempo, raffrontate al diluvio odierno, erano molto più lente ad arrivare, oltre ad essere “filtrate”; perciò ognuno cercava di informarsi dove e come poteva, e per un po’ fu essenzialmente il passa-parola a diffondere quella notizia che per molti fu atroce: quell’uomo che, pur giovanissimo (un musicista e poeta ha scritto che “gli eroi son tutti giovani e belli”, come lui realmente era), per tanti incarnava un mito, un sogno vivente ed operante di liberazione e di riscatto, era stato ucciso, ma poche e non chiare – e dubitabili – erano le notizie sulle modalità dell’uccisione (“tradito e perso“, fu detto poi. Si è saputo più tardi che, grazie ad una delazione, fu catturato vivo l’8 Ottobre dai militari boliviani – coadiuvati dalla CIA, sempre di casa ed attiva in Sud America – e assassinato dopo un giorno, e che morì dopo una lunga e crudele agonia: a lui, che l’aveva predicata, la tenerezza fu negata, ed anche la sola umanità. Aveva 39 anni; le sue spoglie sarebbero state ritrovate e riportate a Cuba solo trent’anni dopo, nel 1997). L’anno successivo, nel ’68, la figura del Che, quel suo indimenticabile “scatto” divenuto un’icona mondiale, con l’inconfondibile basco nero e lo sguardo in avanti, come volto al futuro – da “guerrigliero eroico“, come la foto fu denominata -, campeggiava in tutti i cortei ed i “sit-in” studenteschi (soprattutto) ma anche in quelli operai. Ma quel giorno, quel 9 Ottobre 1967, entrò e restò stampato nella memoria di una generazione, rappresentando il confine fra un prima e un dopo: il giorno nel quale il Che non c’era più, ed un senso di solitudine dilagava

Non mi azzarderò a scrivere su Ernesto “Che” Guevara, sarebbe un confronto impari con le migliaia di pagine, spesso straordinarie per qualità ed intensità (ce ne sono di monumentali), che gli sono state dedicate (segnalo, ma non a caso, uno solo dei molti libri a lui dedicati: “Che Guevara da tasca. L’uomo, il rivoluzionario, lo statista“, una biografia agile, ma esauriente ed accattivante, scritta molto sapientemente da Aldo Garzìa per Ponte alle Grazie, nel 2008). Ma ricordarlo si deve, da chi ancora c’è a cinquant’anni di distanza. E non trovo di meglio, per farlo, che richiamare l’avvincente “ballata” – struggente di malinconia seppur con un guizzo finale di un folle sogno di poeta, che dà il titolo all’album “Stagioni” – che molti anni dopo dedicò alla sua memoria Francesco Guccini* (cos’altro si può dire, dopo le parole di quello splendido testo e le immagini che lo accompagnano?), e la canzone dolcissima – composta nel 1965, quando il Che era vivo: un canto d’amore e di condivisione, non un lamento di morte – interpretata dalla bravissima Nathalie Cardone**, montata con le foto che ci diedero una sofferenza indicibile quando dalla Bolivia girarono il mondo e seminarono un senso di vuoto (che forse oggi non si riesce più a capire), com’è quando muore una speranza.

Hasta siempre, Comandante: cinquant’anni non bastano a dimenticarti.

 

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