Quando gli abitanti di Gorino hanno respinto 20 migranti, in molti (la Chiesa, i commentatori del web e dei giornali, Alfano, la sinistra) hanno immediatamente condannato l’episodio. Girolamo De Michele, in un articolo uscito il 28 ottobre su Internazionale, parlava a ragione dell’indignazione come arma di civiltà, arma politica. Che ai fatti sia seguita una condanna quasi unanime è un bene. Per fortuna c’è, per fortuna è condivisa. In questi casi, come ha scritto Mario Tedeschini Lalli in un bel commento, «comprendere, analizzare e discutere sono cose essenziali, ma da fare a valle di un giudizio netto e preciso: ciò che è accaduto — qualunque siano le ragioni per le quali è accaduto — è assolutamente inaccettabile». Questo è vero.
A più di sette giorni di distanza – a valle – dobbiamo comprendere e discutere. Questo tentativo di riflessione si rivolge a chi, tra quei molti che hanno condiviso l’indignazione, vuole fare un discorso di sinistra. Siamo di sinistra, lottiamo per la giustizia sociale, contro il razzismo e il fascismo. Sappiamo ascoltare le storie dei migranti e riteniamo di comprendere queste cose meglio (di parte) degli abitanti di Gorino. Ma non solo vogliamo comprendere le storie dei migranti. Oggi dobbiamo anche capire perché (parte de)gli abitanti di Gorino sono diventati razzisti di provincia.
Capire è una parola grossa, grossa da poter diventare giustificare, ma capire serve per agire, in questo caso serve per trovare pratiche di accoglienza che funzionino sul territorio. Se non riusciamo a capire, almeno poniamo la domanda. Se infatti vogliamo parlare di quello che succede in provincia o in periferia – il luogo dove non si parla ma «si è parlati» (almeno finché imperversa il dibattito) – dobbiamo descrivere la periferia, chiederci di questa. Dobbiamo avere coscienza almeno parziale dell’oggetto della nostra condanna.
Autocoscienza di chi siamo e coscienza di chi abbiamo di fronte, altrimenti la nostra sola arma politica sarà sana indignazione e basta.
Gorino. Spinoza commentava così «io comunque Gorino l’ho vista e vi assicuro che impedire ai profughi di andarci è un gesto d’amore» [Stark, Spinoza]. Gorino è un luogo periferico: Gorino sta sul delta del Po, a 2 metri sul livello del mare, è una frazione di Goro. Ha 641 abitanti. Le Poste più vicine stanno a sei chilometri, il cinema più vicino sta a quaranta chilometri, il teatro più vicino a cinquanta. Il liceo scientifico più vicino è a Codigoro (30 minuti di macchina); il liceo classico più vicino è a Comacchio (40 minuti di macchina). Dei 641 abitanti, 252 hanno la licenza media, 175 la licenza elementare (fonte: Italia.indettaglio.it).
Il titolo di studio non è certo una patente di saggezza ma assieme al resto abbozza il profilo di una provincia isolata come molte altre in Italia, e inevitabilmente più chiusa, per esempio, del centro studentesco di Bologna, da dove scrivo.
A Gorino ci sono oltretutto pochi stranieri: otto europei e due extracomunitari; nove donne e un uomo. Insomma a Gorino non è una periferia infuocata dal conflitto sociale. A Gorino non ci sono negher sotto casa di cui aver paura. Lì attecchiscono ingiustificate le paure che si alimentano nella chiusura, si mescolano al disagio della crisi («ho perso il lavoro, mio figlio è disoccupato» è il refrain con cui si giustifica uno dei barricanti) e si gonfiano con le retoriche dell’invasione e con le responsabilità della cattiva informazione. Alfano ha commentato: «quella non è Italia, quello che è accaduto non è lo specchio dell’Italia». E invece quella è Italia e Gorino è specchio di malesseri che si agitano, nella provincia e nella periferia della penisola.
I gorinesi. Abbiamo cominciato questo articolo e abbiamo continuato parlando degli abitanti di Gorino, come si è tanto detto in questi giorni. Ciascuno ha il diritto di semplificare come gli pare. Ma se il nostro discorso vuole essere un discorso di sinistra, se nei fatti ci pensiamo come quelli che sanno comprendere le vicende, le individualità dei 20 migranti – a differenza di quelli di Gorino – allora non possiamo neppure parlare di abitanti di Gorino. Chi sono questi abitanti? Quanti sono quelli che hanno alzato i bancali e fatto la barricata? Quanti sono quelli che hanno appoggiato? Quanti quelli contro? Il rischio è per noi di trattare i gorinesi così come (in parte o tutti?) i gorinesi hanno trattato i migranti. Da un lato la collettività paesana di Gorino, sparata al centro della centrifuga mediatica, che diventa sempre più una comunità di razzisti per antonomasia, dall’altro la collettività migrante, delle donne che prima o poi si porteranno dietro i loro mariti e “noi donne di Gorino siamo per molte ore sole in casa perché i nostri uomini fanno i pescatori“, insinuava una signora.
Ci sentiamo sguarniti, perché a parte resistere con l’indignazione e, ora, proporre delle domande, di fatto non sappiamo che fare. Sappiamo una cosa però: pochi sembrano discutere dell’efficacia di questo sistema d’accoglienza. L’accoglienza delle donne e dei bambini migranti presso l’ostello Amore- Natura di Gorino non era stata concordata con gli abitanti del paese: decisioni di questo genere non vengono mai discusse dal basso (o «con il basso»), e per i sostenitori della democrazia (della democrazia partecipativa, magari!) non può trattarsi di una prassi lodevole, anche se basata sulla retorica emergenziale. La verità è che se non ci fossero state barricate, se gli abitanti di Gorino avessero accettato le donne e i bambini migranti, comunque non li avrebbero accolti. Comunque non li avrebbero integrati. Sarebbe stato un fallimento meno rumoroso, certo, ma sarebbe stato un fallimento. Il quotidiano, banale fallimento della macchina italiana dell’accoglienza.
La condanna sociale contro chi è davvero razzista può essere chiara e ferma soltanto se le nostre pratiche di accoglienza risultano, nei fatti, efficaci. Chiediamoci dei gorinesi, senza giustificare. Poniamo che la risposta sia: tutti i gorinesi sono razzisti. In questo caso avrebbe senso spedirci e sistemarci 20 migranti?
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*ringrazio Michela Pusterla e Lanfranco de Franco per aver condiviso con me il tempo e le idee che hanno fatto maturare queste considerazioni.