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Il salvataggio delle banche italiane costa 52 miliardi di euro

Un articolo di ieri di Bloomberg sostiene che mettere in sicurezza il sistema bancario italiano costa 52 miliardi, di cui 20 potrebbero venire da aumenti di capitale privati (il più grande, quello di Unicredit di 13 miliardi). 
A questo ammontare l’agenzia arriva includendo gli 8 miliardi che serviranno a Unicredit per portare al 75% la svalutazione dei suoi 18 miliardi di sofferenze e al 40% il “taglio” degli altri crediti deteriorati di più agevole recupero. Con ciò fissando un nuovo “benchmark” per l’intero sistema bancario. 
Se tutte le banche decidessero di portare a tali livelli le coperture dei loro “non performing loans”, servirebbero, appunto, 52 miliardi. Al 30 giugno scorso, secondo i dati della Banca d’Italia, il sistema era gravato da 200 miliardi lordi di sofferenze (svalutate di quasi il 60%) e da 160 miliardi lordi degli altri crediti difficili (svalutati di quasi il 30%).

A tale risultato si arriva a spanne così:

30 miliardi per portare dal 60% al 75% le svalutazioni dei 200 miliardi di sofferenze (15% in più);

16 – 18 miliardi per abbattere del 10- 12% gli altri 160 miliardi di crediti meno critici;

il resto per il costo dell’attività di cessione al mercato delle sofferenze e per nuovo capitale alle banche deficitarie.

Dai 52 miliardi vanno sottratti i 13 di aumento che Unicredit potrà trovare sul mercato. 
Il Governo ha approntato un decreto per disporre di un ombrello fino a 20 miliardi (tutto a carico del debito pubblico), che possono essere sufficienti, tenendo conto che una parte importante del risanamento andrà a carico dei creditori delle banche. 
Inoltre, la gran parte delle banche potrà diluire nel tempo la cessione delle sofferenze ed effettuarla con operazioni di mercato, evitando così l’ingresso di un socio “scomodo” come il Governo. Per queste ragioni i 20 miliardi stanziati dal Tesoro potrebbero bastare.

In queste ore – fallita la soluzione privata per l’assenza di “anchor investor”, nonostante le adesioni volontarie per 2,44 miliardi alla conversione di subordinati – si sta definendo la soluzione per MPS, che avverrà secondo le regole della direttiva BRRD sul risanamento delle banche in difficoltà. L’intervento pubblico, in caso di “rilevanza sistemica” della banca in difficoltà, può avvenire (fino al 5% delle passività) solo dopo aver effettuato il “bail-in” su almeno l’8% del passivo. Nel caso di MPS, fallito l’aumento di capitale di mercato, significa che il debito da coinvolgere è di circa 13 miliardi di cui: 7,5 miliardi di patrimonio e 4,5 di obbligazioni subordinate da convertire in azioni.

Il decreto prevede alcuni step: il primo garantisce le obbligazioni (eccetto le subordinate) e risolve il problema della liquidità di MPS visto che il prossimo anno scadono 12 miliardi di bond; si potrà quindi, superando la scadenza del 31 dicembre, concludere l’aumento di capitale da 5 miliardi necessario per cedere ai prezzi di mercato le sofferenze. Il secondo step è la ricapitalizzazione precauzionale, utilizzando il fondo di 20 miliardi deliberato per questo tipo di soccorso.

Entro i prossimi mesi MPS dovrà ottenere l’autorizzazione della Vigilanza della BCE sul nuovo piano industriale e il governo aprirà le trattative con la Commissione Europea, per la compatibilità dell’intervento con la normativa sugli aiuti di Stato. Proprio per questo sarà inevitabile l’integrale conversione di tutti i subordinati, mentre non scatterà il bail-in sulle obbligazioni, depositi e conti correnti. Un pericolo per fortuna scongiurato.

Secondo fonti bene informate, l’aumento di capitale non dovrebbe variare, anche se, applicando il “benchmark” fissato da Unicredit servirebbero più di 5 miliardi.
Non è chiaro se si procederà con un’unica maxi-cartolarizzazione dei 27,6 miliardi di sofferenze lorde con lo schema già fissato dall’attuale piano. In alternativa le cessioni di sofferenze potrebbero essere suddivise in più tranches e, infine, MPS potrebbe anche decidere di non svenderle gestendo in proprio il recupero crediti.

Resta da vedere quale sarà il costo della conversione forzosa per gli obbligazionisti subordinati. Problema non da poco sarà quello di stabilire a chi, e quanto, restituire ai possessori “retail” (cioè a quelli poco informati o con un profilo inadeguato al rischio) dei 2,1 miliardi di bond sub, emessi nel 2008 per completare il finanziamento del disastroso acquisto di Banca Antonveneta. Sul punto è da attendersi la ripetizione, amplificata, degli strascichi polemici già vissuti con la “risoluzione” delle 4 banche dell’Italia centrale.

Nell’articolo di Bloomberg si dice anche che, una volta risolti i problemi delle grandi banche con la cessione delle sofferenze, la Vigilanza bancaria della BCE farà pressione sulla Banca d’Italia, che vigila sul resto degli istituti di credito (quelli con un totale attivo inferiore ai 30 miliardi), per applicare gli stessi criteri ai crediti deteriorati di queste banche.

La prospettiva del Governo ora è di entrare nel capitale delle banche che utilizzeranno il fondo di 20 miliardi. Con la problematicità di gestire di nuovo partecipate bancarie e di inserire nei CDA bancari propri rappresentanti, dotati di requisiti – di onorabilità, esperienza e indipendenza – non facili da selezionare e da coinvolgere.
 Un intervento di questa portata, doloroso per una parte dei risparmiatori (per via delle regole europee) dovrebbe essere accompagnato da una moralizzazione dell’intero sistema, che passa anche dalla riduzione dei compensi della compagine bancaria a cominciare da quelli, spesso spropositati – visti anche i risultati – degli amministratori e dei dirigenti.

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