Italia e Germania nella gestione della spesa pubblica sono come l’olio e l’aceto. Due elementi che rendono ottima una insalata ma che non si può far stare insieme: puoi mescolarli quanto vuoi, alla fine si separano. L’esempio è valido per descrivere la gestione dei conti pubblici italiani e tedeschi negli ultimi anni. Fino al 2014 il debito della Germania – cresciuto per i costi dell’unificazione e il salvataggio del sistema bancario – era più alto in valore assoluto di quello italiano.
Il Presidente della BCE, Mario Draghi nel discorso del 27 settembre al Bundestag ha difeso la politica della BCE, chiedendo innanzitutto altre politiche di crescita a livello nazionale ed europeo per ottenere tutti i benefici delle misure di politica monetaria. Un richiamo quindi alle riforme strutturali e a leggi di bilancio che aiutino la crescita nella stessa Germania dove ci sono margini per spendere di più. Ha sottolineato poi che i tassi bassi erodono certamente i rendimenti dei risparmi, ma diminuiscono i costi delle rate dei mutui, anche delle famiglie tedesche, e soprattutto riducono i costi di rifinanziamento del debito pubblico. Grazie al QE la Germania ha risparmiato nel 2015 ben 28 miliardi per minori tassi d’interesse con un un trend che continua anche nel 2016. La Germania in questi due anni in cui è stato in pratica azzerato il costo delle nuove emissioni di bund ha potuto conseguire bilanci pubblici in attivo e una forte discesa del debito pubblico sul PIL (oggi questo rapporto è sotto il 75%, contro il 132% dell’Italia, ed il governo ha l’obiettivo di portarlo al 60% entro il 2020). Malgrado la politica di rigore il PIL tedesco crescerà nel 2016 del 2%. Opposto il comportamento del Governo italiano che ha usato i benefici del calo del costo del debito (in misura leggermente inferiore a quello tedesco) per continuare ad espandere la spesa pubblica. Il Governo, in altre parole ha potuto disporre per le sue politiche di stimolo all’economia sia il deficit tra il 2,5 e il 3% del PIL del triennio 2014 – 2016 sia i circa 20 miliardi annui di risparmio della spesa per interessi. Giudicare “rigorosa” questa politica è un artificio dialettico per disporre di maggiore flessibilità, ma non corrisponde ala realtà dei fatti.
Fatte le dovute differenze tra i due paesi resta il fatto che il surplus del bilancio pubblico e quello delle partite correnti della Germania (esportazioni meno importazioni) di oltre 300 miliardi (8,9% del PIL, il maggior surplus mondiale grazie a un export di beni per mille miliardi e un import di 700 miliardi) rappresentano un freno alla crescita tedesca ed europea.
In Germania non mancherebbero le ragioni per spendere. Dal 2008 gli investimenti sono calati di quasi cento miliardi l’anno; il governo ha le risorse per rinnovare la rete viaria e smantellare le vecchie centrali nucleari; potrebbe anche ridurre le imposte, guadagnandosi il consenso dei propri cittadini e spingere i consumi interni. Eppure non lo fa, conservando l’avanzo di bilancio. Una parsimonia incomprensibile se si considera il calo di consensi del partito della Merkel.
Insomma la Germania rifiuta di fare la locomotiva d’Europa, il che sarebbe coerente col peso del suo PIL, pari a quasi il 30% dell’Eurozona. La Germania riempie il mondo di proprie merci ma non rimette in circolo il proprio surplus. Frutto di un cambio che favorisce l’export tedesco e soprattutto frutto della maggiore qualità percepita del “made in Germany”. L’economia tedesca sviluppava infatti enormi surplus pure quando l’euro era del 20% più forte di oggi. Certo la soluzione peggiore sarebbe la rottura dell’euro. I suoi costi sarebbero colossali per i singoli Paesi (anche per la Germania) e per il progetto europeo. Per l’Italia è facile immaginare cosa accadrebbe nel caso di una “Italy exit” dall’Euro. I possessori di euro cercherebbero in ogni modo di salvaguardare i propri risparmi e investimenti finanziari in euro (esportando valuta, tenendola in contanti ed accelerando il crack finanziario) piuttosto che convertirli nella nuova moneta. Ciò nella certezza che il cambio si svaluterebbe almeno del 30%, con un aumento di pari ammontare del debito pubblico, denominato in euro (salvo a non voler dichiarare default con un haircut devastante per la credibilità dell’Italia che ha sempre onorato i propri debiti).
Non sarà facile viste le opinioni del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, contrario all’idea di usare una parte del surplus di bilancia commerciale e dei conti pubblici per dare una spinta alla crescita europea. Dall’Italia sembra incomprensibile come la Germania, non voglia usare le risorse che ha per migliorare il benessere dei tedeschi. Potrebbe espandere gli investimenti pubblici fino all’1% del PIL, facendo guadagnare al Governo consensi sull’elettorato. Prevale invece una filosofia di rigore, spiegabile solo col desiderio di mantenere l’egemonia europea: chi non ce la fa tiri la cinghia, pur a costo di una bassa crescita. In questo quadro il taglio delle imposte per i redditi medi,è rinviato a dopo le elezioni del 2017. Le stime del FMI e del Tesoro USA per valutare gli spillover (cioè le ricadute sugli altri paesi) di una maggiore spesa per investimenti, sono concordi nel sottolineare gli effetti per tutta l’eurozona. Più investimenti pubblici avrebbero ricadute consistenti sui partner commerciali della Germania, primo fra tutti l’Italia scambi commerciali molto sostenuti. Secondo tali studi, un punto percentuale di investimenti pubblici tedeschi farebbe crescere il PIL fino allo 0,5%, quella crescita in più che serve all’Italia. Con questo “atto di generosità fiscale” verso i propri cittadini la Germania, ridurrebbe solo dello 0,6% il suo attivo con l’estero (dall’8,9% all’8,3%) senza danni per l’industria tedesca che venderebbe all’interno le merci non collocate altrove.
Incomprensibile prudenza, in parte legata ai timori dei costi per l’integrazione dei rifugiati, comunque senza andare oltre il pareggio, diventato la stella polare o la fissazione, della gestione Schaeuble. Spese ingenti, soprattutto se gli arrivi nel 2016 dovessero uguagliare quelli del 2015. Le previsioni di spesa per i rifugiati parlano di 15 miliardi quest’anno e di 17 il prossimo, il che darà impulso ai consumi e al settore edile.
Sul piano delle entrate, la crescita economica ha generato maggiore occupazione, aumento dei salari e, di conseguenza, entrate fiscali più alte. La crescita dei consumi ha a sua volta fatto salire le entrate da Iva.
Tuttavia, la spesa pubblica, è stata di 2,6 miliardi inferiore alle previsioni del budget. Su questo punto si concentrano le critiche anche di alcuni economisti tedeschi, che denunciano l’insufficiente investimento in infrastrutture, trasporti e sviluppo digitale. Come osserva Marcel Fratzscher, direttore dell’istituto DIW, l’investimento pubblico, pur con l’annunciato aumento di 10 miliardi per i prossimi tre anni, resta sotto il necessario per mantenere la competitività dell’economia tedesca.
Forse la verità sta in una fusione tra olio ed aceto, possibile solo attraverso un emulsionante: una maggiore attenzione all’equilibrio generale e una fase di governo collettivo illuminato per l’eurozona. Senza cedere a egoismi nazionali, il cui eccessivo perseguimento porterebbe alla distruzione dell’economia globale e dei propri stessi Paesi.