La riduzione delle tasse, che a volte assume l’aspetto di una vera “ossessione fiscale“, è una proposta abbastanza generalizzata e assume aspetti e misure diverse; da parte della destra è stato lanciato l’obiettivo della “flat tax“, consistente in un’aliquota unica di tassazione in luogo degli “scaglioni” attuali, che è utile ricordare:
Redditi fino a 15.000 euro | 23% | 23% del reddito |
Redditi da 15.001 fino a 28.000 euro | 27% | 3.450,00 + 27% sul reddito che supera i 15.000,00 euro |
Redditi da 28.001 fino a 55.000 euro | 38% | 6.960,00 + 38% sul reddito che supera i 28.000,00 euro |
Redditi da 55.001 fino a 75.000 euro | 41% | 17.220,00 + 41% sul reddito che supera i 55.000,00 euro |
Redditi oltre 75.000 euro | 43% | 25.420,00 + 43% sul reddito che supera i 75.000,00 euro |
Quello che la destra propone è un’aliquota impositiva unica (perciò “piatta“) compresa fra il 15% ed il 20% (non c’è ancora una proposta unica ed ufficiale); all’obiezione, immediata, che questo comporterebbe, in qualunque caso, una grave riduzione del gettito fiscale (e quindi delle disponibilità economiche dello Stato), viene risposto che tale meccanismo darebbe sollievo anzitutto e principalmente ai percettori di redditi medio-bassi (!), e che la sua applicazione darebbe luogo non ad una diminuzione delle entrate fiscali complessive dello Stato ma in realtà ad un loro aumento (!!), perché indurrebbe gli attuali evasori ad “emergere” (cioè, ad uscire allo scoperto, a non più evadere), incoraggiati da un sistema non più vessatorio (come quello attuale viene definito da quei proponenti): insomma, pagherebbero tutti e questo permetterebbe – come in una favola bella – di far pagare meno a tutti e, allo stesso tempo, di far incassare di più allo Stato e dargli così più risorse da dedicare alle varie spese sociali (evviva! Ma non si poteva pensarci prima?).
Raramente si è assistito ad un’obiezione ragionata e documentata a tale ipotesi di “rivoluzione fiscale“, benché questo possa essere fatto con argomentazioni non da economisti cattedratici ma comprensibili perfino in una scuola media, tanta è la loro semplicità, come si cercherà di dimostrare: basta solo un po’ di attenzione e pazienza.
Bisogna osservare, preliminarmente e per chiarezza, che per “reddito” (imponibile) si intende quello, per così dire, “equivalente“, vale a dire quello che si ottiene sottraendo dal reddito materialmente percepito (al lordo) i contributi versati e le deduzioni che la legge consente (deduzioni che incidono sensibilmente, per la verità, solo sui redditi medio-bassi): su tale reddito risultante viene effettivamente applicata l’aliquota impositiva. Ad esempio: se si percepisce un reddito lordo di 30.000 euro, si pagano contributi per 4.000 euro e si ha diritto a deduzioni fiscali di varia natura per 2.000 euro, il “reddito imponibile” è di 30-000 – 4.000 – 2.000 = 24.000 euro, ed a tale reddito viene applicata la tassazione.
Quindi, tornando alla tabella sopra riportata e senza considerare eventuali deduzioni (che giocano un ruolo sempre minore man mano che aumenta il reddito), una persona che presenti una dichiarazione di reddito pari a, mettiamo, 185.000 euro, dovrà pagare al fisco, secondo la tabella riportata, 25.420 euro più il 75% della quota eccedente i 75.000 euro, che nel caso considerato è pari a 185.000 – 75.000 = 110.000 euro; essendo il 43% di 110.000 pari a 47.300, la somma complessiva che quel contribuente – con un imponibile fiscale di 185.000 euro – deve pagare è di 25.420 + 47.300 = 72.720 euro.
Se l’aliquota impositiva fosse, mettiamo, del “18% piatta”, quel contribuente dovrebbe pagare al fisco 185.000 x 0,18 = 33.300 euro: pagherebbe perciò 72.720 – 33.300 = 39.420 euro in meno, rispetto al regime attuale. Ovviamente, il “guadagno fiscale” crescerebbe e si impennerebbe per redditi ancora maggiori: per fare solo un esempio concreto, Daniela Santanché, strenua propagandista della “flat tax” – perché questa, a suo dire, difende i redditi più bassi (sic!) -, alcune sere fa in una trasmissione televisiva ha dichiarato che il suo reddito imponibile è di 400.000 euro. A tale reddito corrisponde, attualmente (ricorrendo alla tabella riportata), una tassazione di 165.170 euro (pari al 41% medio); con una “tassa piatta” al 18% la tassazione si ridurrebbe a 72.000 euro, con un “risparmio fiscale“, per la Sig.ra Santanché, di 93.170 euro (invece, il contribuente con un reddito di 75.000 euro pagherebbe 13.500 euro in luogo di 25.420, quindi 11.920 in meno; quello con un reddito di 55.000 euro pagherebbe 9.900 euro invece di 17.220, cioè 7.320 in meno; e così via, con un vantaggio decrescente man mano che si va verso i redditi più bassi.). Ci vuole perciò una bella faccia tosta a sostenere, come faceva la Sig.ra Santanché, che si vogliono difendere, con quella proposta, i redditi più bassi: questo equivale a chiamare imbecille (perché incapace, secondo lei, di capire e valutare) chi legge o chi ascolta. Eppure, la si lascia parlare (come è avvenuto) senza accennare ad obiezioni “di merito”.
Ergo: è del tutto evidente che un’aliquota “piatta“, quale che fosse, darebbe benefici maggiori e sempre crescenti per i redditi alti, non per quelli medio-bassi. E’ “sorprendente” (ma non troppo) che una considerazione così semplice non venga mai sollevata dal giornalista o dal commentatore di turno, quando viene intervistato uno dei sostenitori della “flat tax” (termine inglese – chissà perché si usano sempre questi “anglicismi“: forse per darsi un tono, o per provincialismo – per dire quello che, molto semplicemente e comprensibilmente per tutti, in italiano si esprime con “tassa piatta“): un calcolo così elementare dimostra inconfutabilmente chi trarrebbe vantaggio da un’aliquota fissa e non progressiva (la Costituzione impone, all’art. 53: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività“). E’ chiaro, dai semplici conteggi precedenti, che un’imposizione “piatta” darebbe vantaggi tanto maggiori quanto più alto è il reddito: sarebbe perciò non “progressiva“, come la Costituzione impone, ma – il suo esatto contrario – “regressiva” e perciò, oltre che socialmente ingiusta (ed economicamente dannosa, come si dimostrerà più avanti), anche anticostituzionale.
Vediamo ora se può essere vera la seconda parte della proposta, quella relativa addirittura all’aumento delle entrate fiscali che deriverebbero da un’imposizione “piatta“. Perché questo avvenisse, si dovrebbe riuscire, anzitutto, a compensare la riduzione di gettito rispetto al sistema attuale, per poi ottenere (questa la tesi) un aumento delle entrate fiscali dovuto all’ampliamento della “base impositiva“, poiché i cittadini sarebbero indotti da un sistema più “umano” a fare il loro dovere di contribuenti e smettere di evadere (per i renitenti vengono minacciate pene severissime, a complemento della proposta).
Detto “A” il numero attuale di contribuenti con il sistema “a scaglioni“, l’applicazione di una tassa ad aliquota unica comporterebbe, in prima e provvisoria istanza, che quel numero “A” frutterebbe allo Stato un gettito ridotto (lo si è visto con gli esempi fatti): si fanno ipotesi diverse sulla contrazione, generalmente situata fra i 30 ed i 40 miliardi di euro. Mettiamo, per ipotesi valutativa, che la riduzione fosse di 35 miliardi. Per compensare quella perdita, occorrerebbe “scovare” redditi attualmente non dichiarati che, con l’aliquota supposta del 18%, ammonterebbero a 35 : 0,18 =1 94 miliardi (infatti, 194 miliardi di redditi finora evasi darebbero luogo, con un’aliquota impositiva del 18%, ad entrate per, appunto, circa 35 miliardi). Al di là di 194 miliardi di “nuovi” redditi lo Stato, compensata la perdita, comincerebbe a guadagnare, ottenendo un monte complessivo di entrate superiore a quello attuale, nonostante la drastica riduzione dell’imposizione. La domanda è semplice: è sensato supporre che esistano e che si possano portare allo scoperto redditi attualmente non dichiarati per oltre 200 miliardi di euro (o ancora di più, se l’aliquota unica dovesse essere inferiore al 18% supposto, o se la riduzione di gettito fosse maggiore dei 35 miliardi ipotizzati)? La risposta è che no, non è un’ipotesi fondata né dimostrabile: è una “bufala“, o se si preferisce una “fake news“.
Che cosa resterebbe (“que reste-t-il?“, cantava una struggente canzone francese di un tempo), come risultato della “tassa piatta“? Resterebbero unicamente la riduzione delle entrate fiscali, a beneficio principalmente dei redditi medi ed alti, e la conseguente ed imperiosa necessità di ridurre la spesa sociale (i vari tipi di spesa sociale) per evitare la bancarotta dello Stato. E’ questo il fine ultimo e vero, ed il risultato inevitabile, di un sistema fiscale non-progressivo, derivante da un modello ad aliquota unica: a vantaggio di pochi, e con dolorose, ed in molti casi drammatiche, conseguenze sui molti. Non deve passare, non si deve credere a chi la propone: è un imbroglio.