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La vera storia di Abdullfattah Jandali, immigrato siriano

C’è un aspetto simbolico forte nella chiusura a tempo indefinito di Trump agli immigrati provenienti dalla Siria, per evitare di importare potenziali terroristi da luoghi di conflitto (gli altri paesi oggetti del ban sono Iraq, Iran, Libia, Somalia e Yemen) Negli ultimi 15 anni non c’è stato infatti nessun attentato negli Stati Uniti compiuto da un cittadino di questi paesi: gli attentatori dell’11 settembre erano sauditi, degli Emirati Arabi Uniti e dell’Egitto; la strage della maratona di Boston fu fatta da un ceceno, altri episodi più recenti come le strage di Orlando e di San Bernardino sono state compiute da cittadini statunitensi, di origine afghana e pakistana, ma nati sul suolo americano.
Certo ieri non vuol dire domani, anche se è curioso che non siano stati inseriti stati come Pakistan e Arabia Saudita da cui alcuni attentatori in effetti provenivano. E rimane il fatto che bloccare l’immigrazione a intere popolazioni per le azioni di singoli non è detto che renda più sicuro il paese.

Ma l’aspetto simbolico da sottolineare è che l’unico immigrato siriano negli Stati Uniti che si ricordi è Abdullfattah “John” Jandali, ed è forse lui che attira gli strali di Trump, magnate di un capitalismo novecentesco fatto di edilizia e speculazioni. Il nome forse non di vi dice nulla? Jandali, sbarcato in Wisconsin per un dottorato, si innamora di una ragazza di origine svizzera che segue il suo corso in scienze politiche, e la combina grossa, mettendola incinta (pare durante una vacanza estiva dai suoi a Homs, in Siria). Insomma, una vecchia storia avrebbero detto alcuni: vengono nei nostri paesi, prendono le nostre donne. Il padre della ragazza non accetta che possa sposare un musulmano e vuole che si separino. Lei, Joanne Carole, se ne va a partorire lontano da casa, a San Francisco. Il bambino lo darà in adozione a Clara, figlia di immigrati armeni, e Paul Jobs, l’unico statunitense (da almeno una generazione, ma anche lui proveniente da una città il cui nome è tutto un programma: Germantown, il paese tedesco) di questa formidabile genealogia. Che porta a Jobs, Steve Jobs, da Homs, figlio di un immigrato siriano.

Ovviamente Trump ha firmato il suo decreto contro l’immigrazione all’interno di una politica discriminatoria verso i musulmani, non certo per impedire la nascita di nuovi imprenditori; ma, nel suo attivisimo incontrollato, ha beccato i suoi veri nemici. Che non sono la società aperta, la Cina, l’Islam o il dumping salariale dei messicani ma il capitalismo 2.0, che mette a rischio il suo establishment di ereditieri e petrolieri. Uno scontro tra classi dominanti, nel quale i lavoratori sono un mero paravento.
E per quanto Apple sia un modello pieno di chiaroscuri (per usare un eufemismo), si potrebbe ricordare, per concludere, che nella storia di Jobs c’è anche molto di quel Rust Belt depresso che ha deciso le elezioni di novembre. Non solo la madre biologica è cresciuta in Wisconsin, ma da lì proviene anche il padre adottivo Paul Jobs, blue collars, ex macchinista, pronto a costruire e aggiustare tutto quello che serviva in casa ( la mistica del garage viene a Steve Jobs da lui) dopo aver cambiato lavori su lavori nell’America che si risolleva dalla crisi del 1929 con il New Deal roosveltiano. Anche questo ha un che di simbolico.

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