Questo che va a concludersi è stato per me un anno, emotivamente e politicamente, indimenticabile.
Credo d’aver già raccontato che la mia militanza politica inizia da giovanissimo, quando a nemmeno 14 anni, complice il fatto che avevo iniziato le elementari a 5, prendo la mia prima tessera. Tessera della FGCI, firmata dall’allora segretario nazionale Renzo Imbeni (lui, modenese, sarà poi un ottimo sindaco di Bologna). L’anno successivo la firma in calce alla tessera sarà di Massimo D’Alema.
Da quel lontano 1976 sono passati 41 anni e in un cassetto custodisco 41 tessere: FGCI, PCI, PDS, DS, PD e…….ART. 1 MDP. Se qualcuno mi avesse predetto che un giorno avrei abbandonato la mia casa materna e paterna insieme, il luogo dove mi sono formato anche come uomo e che mi ha lasciato addosso un modo e un metodo di pensare, di agire e di interpretare i rapporti umani oltre che politici, lo avrei preso per pazzo. Anzi peggio, per un cialtrone.
Ho già anche detto e scritto di essere nato comunista e poi di esserlo diventato. Nessuna nostalgia per un’esperienza politica irripetibile, ma questo mio “modo d’essere” mi ha fatto sempre ritenere prioritario l’interesse della “ditta” rispetto alle vicende, le ambizioni o le velleità personali. Perché la ditta era sì fatta di persone e personalità diverse, ma l’insieme dei valori e delle idee che li univa non erano messe in discussione. Come non erano messe in discussione ma rispettate e valorizzate le radici.
Ho sempre ritenuto che essere di sinistra fosse tutto sommato semplice quanto gratificante: difendere e rafforzare i diritti di chi lavora e quelli sociali, premiare le imprese che creavano occupazione innovando, porre attenzione agli ultimi in ogni parte del mondo, ritenere che la distribuzione della ricchezza dovesse avvenire in maniera equa (“Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”). Mai accettato l’idea che dovessero essere i “mercati” a decidere del mio destino, del mio futuro. Insomma, tra la socializzazione dei mezzi di produzione e la sacralità dei mercati finanziari ho sempre testardamente ritenuto che ci fosse una terza via, quella di regole che salvaguardassero la dignità di ognuno. Una società, quindi, che non necessariamente dovesse prevedere e accettare situazioni tipo IKEA, Amazon, Foodora, ecc.
Nulla di rivoluzionario, ma di giusto.
Poi è accaduto l’inimmaginabile: non un cialtrone ma proprio il segretario del mio partito ha disintegrato quelle poche convinzioni che hanno scandito gran parte dei giorni della mia vita, costringendomi a trasferirle altrove. Da disciplinato militante ho difeso, anche litigando aspramente con l’interlocutore di turno, Jobs Act, Buona Scuola, Bonus. Persino la riforma costituzionale e l’Italicum. Però ad un certo punto mi sono sentito come Jep Gambardella ne “La grande bellezza” e ho capito che alla mia età non posso più perdere tempo a fare (e dire) cose che non mi va di fare (e di dire)!
Ho accarezzato per lungo tempo l’idea di provare a non occuparmi più, come militante e dirigente, di politica. Da anni ho in mente una trama per un romanzo e volevo provare a trasferirla sulla tastiera e sul video di un computer. Non avevo considerato appieno la “variabile Toscana” e i suoi effetti. Sì perché nel frattempo avevo incrociato sui social Enrico Rossi. Ciò che scriveva, dal principio mi aveva solo incuriosito, poi (politicamente) conquistato. Anche in questo caso non c’era nulla di rivoluzionario se non la l’idea di un partito della sinistra, il PD, che semplicemente facesse ciò per cui era nato: valorizzare e rendere attuali i valori del socialismo, dell’ambientalismo e della dottrina sociale della Chiesa. Finalmente qualcuno che, visto dalla mia personale visuale, non si faceva superare a sinistra da Papa Francesco.
La sua candidatura alla segreteria nazionale del PD e la manifestazione al Teatro Vittoria a Roma del 18 febbraio scorso oscurata, per dirla tutta, dal lungo e istrionico intervento di Michele Emiliano condito da pesanti attacchi a Renzi e dalla (sua) minaccia di imminente abbandono, rappresentarono l’apice di un percorso fatto insieme.
Poi, il giorno dopo, l’Assemblea Nazionale del PD in cui Renzi non solo non accolse alcuna proposta di mediazione per salvaguardare l’unità del partito ma, dimostrando assoluto disprezzo per quell’assise e per le ragioni dell’opposizione interna, non seguì l’intero corso dei lavori e non li concluse.
Quando Rossi mi comunicò l’inevitabilità della scelta di lasciare il partito che aveva contribuito a fondare e a cui, per quanto mi riguarda, ero iscritto sin dalla sua fondazione mi trovai difronte ad una scelta non semplice; una scelta umanamente, prima ancora che politicamente drammatica. In quel partito c’erano donne e uomini con cui avevo condiviso battaglie importanti nella mia città, a cui ero legato affettivamente in modo profondo. Ma lo spirito di Jep mi aveva pervaso completamente la mente e dopo una lunga e insonne notte feci la mia scelta: non rinnovare la tessera al PD e partecipare all’avventura di Art. 1. Il comunicare la scelta a mio padre, iscritto al PCI dal dopoguerra, e scoprire nelle sue lacrime che non solo capiva la mia scelta ma l’approvava, la condivideva.
Un’avventura visionaria in compagnia di visionari di ogni età. Visionari, non nostalgici. Un’avventura esaltante come può esserlo il costruire dal nulla un nuovo soggetto politico. Non è stato assolutamente semplice, occorre una passione infinita e un attaccamento quasi morboso ai valori che ti hanno ispirato per una vita. Forse è il percorso giusto. Forse, come ebbe a dire Roberto Speranza all’assemblea che dette vita a Liberi e Uguali, siamo dalla parte giusta. Un anno fatto di sentimenti contrastanti ma esaltante è oramai trascorso. E’ stato l’anno di una nuova vita politica, di un nuovo e sconosciuto percorso. Un percorso che dovrà proseguire nell’anno che verrà. Io mi sto preparando e questa non è una novità.
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Foto di copertina: Luigi Pizzolo (in mezzo), ad una iniziziativa con il Presidente della Toscana Enrico Rossi (alla sinistra)