Joschka Fischer, Vice-Cancelliere e Ministro degli Esteri della Germania nei due Governi Schroeder, nel volume “Se l’Europa fallisce?” ha in gran parte disatteso l’indicazione metodologica prospettata da Kant nel “Conflitto delle facoltà”, per cui “…se tutto ciò che uno dice dev’essere vero, non perciò è un dovere dire pubblicamente ogni verità”.
E’ apprezzabile il suo sforzo di tenere la rotta di un’esposizione in cui la sincerità (virtù crudele) sovrasta di gran lunga una certa benevola ipocrisia che è indispensabile per garantire le condizioni della convivenza. Questa stessa scelta segnala l’urgenza del tema affrontato e la pericolosità potenziale degli esiti che si delineano all’orizzonte. Cosa succede se finisce l’Europa? Quali sono le condizioni per cui questo evento potrebbe verificarsi? Sono interrogativi pesanti, gravidi di conseguenze pratiche, non solo dispute intellettuali.
Partirei da una considerazione di fondo che Joschka Fischer introduce nel capitolo intitolato “Il grande crollo”. Secondo l’autore la crisi della finanza globale nella sua variante europea si differenzia in un punto essenziale; diversamente dagli USA, dalla Cina, dal Giappone, dove la crisi non si è trasformata anche in una crisi del sistema politico, quella europea, fin dall’inizio, ha rappresentato un rischio per l’esistenza della stessa UE perché è mancata e manca la statualità necessaria alla stabilizzazione di un’unione monetaria. La UE è ancora un work in progress politicamente incompiuto. Se si vuol vederne il lato positivo si tratta di “…qualcosa di mai visto, vale a dire una convergenza volontaria di Stati sovrani verso un’unità più forte che si muove tra la confederazione di Stati e lo Stato federale”. La crisi ha colto l’Europa in mezzo al guado e la minaccia che pende sul progetto europeo deriva più che dalla crisi finanziaria dalla crisi della sovranità “…vale a dire da una crisi nella divisione dei poteri tra gli Stati membri e l’Unione”.
Opinione pubblica ed élite erano del tutto consapevoli di questo difetto di costruzione. Nella fondazione della moneta comune si è partiti ancora dal metodo dei piccoli passi, per decenni dimostratosi efficace. Soprattutto per la Germania che, dopo le catastrofi del Novecento, trovava un orizzonte ed una prospettiva nella realizzazione dell’integrazione europea, una meta storica che impegnava tutto il Paese al di là dei cambi di governo. Era una risposta convincente all’annoso problema della collocazione tedesca in Europa, agli squilibri di potenza che la “centralità” tedesca ha innescato fin dalla realizzazione dell’unificazione nazionale nel 1871.
Occorre ricordare che Bismarck, artefice dell’egemonia prussiana nella costruzione dello Stato nazionale tedesco, rese vincente un modello di nazionalismo militarista e industrialista oltre che antiliberale a cui, dopo le vittorie prima contro l’Austria e poi contro la Francia, la borghesia e gli intellettuali si adattarono rapidamente. Il problema, come vedremo più avanti, è che, secondo Fischer, gli eredi di Bismarck hanno completamente rovesciato la politica estera della Germania e spezzato l’equilibrio europeo, creando le condizioni per i due conflitti distruttivi del ‘900.

L’autore parla del 2008 come di anno di svolta della recente storia occidentale. La crisi finanziaria innescata negli Usa con il fallimento della banca d’investimento Lehman Brothers e tamponata dall’intervento governativo di salvataggio del sistema finanziario americano, ancora nel 2009 era vissuta in Europa come un problema dell’altra sponda dell’Atlantico. Le dimensioni reali del deficit greco con la conseguente esplosione dei tassi di interesse ed il rischio di insolvenza della Grecia nei confronti delle banche tedesche, francesi e britanniche indusse i creditori del Nord Europa ad attivare misure di salvataggio. Secondo l’autore bisognerebbe parlare di ”…salvataggio delle banche europee, nascosto sotto l’etichetta di salvataggio della Grecia”.
L’euro, introdotto nel 2002, ha funzionato piuttosto bene per un decennio, relativamente al tasso di inflazione ed al valore esterno della moneta. Ma si tratta di un decennio segnato dal bel tempo economico, “…con riserve apparentemente inesauribili di denaro a basso costo. Ciò che invece non ha mai funzionato è stata una solida convergenza dell’economia reale dei Paesi partecipanti”. Dal 2008, scoppiata la crisi e preso atto degli squilibri delle economie nazionali, è mancato quello che succede di regola, cioè la compensazione mediante trasferimenti diretti ed indiretti di varia natura da parte di un centro politico. Maastricht aveva sottratto agli Stati ”... entrambi gli strumenti di cui gli Stati sovrani dispongono in momenti di crisi: la svalutazione interna della moneta mediante l’inflazione, o la svalutazione esterna in rapporto alle altre monete; e così, come strumenti per combattere le crisi nazionali, rimaneva soltanto la deflazione interna, vale a dire una riduzione della spesa pubblica, comprese le pensioni, i salari e i prezzi”.
Sul punto l’analisi di Joschka Fischer è puntuale e stringente, confortata nel merito addirittura da un’indagine di Deutsche Bank secondo cui molte economie del mondo stanno attraversando la cosiddetta “wage deflation” che possiamo, con linguaggio corrente, definire svalutazione/diminuzione dei salari. Che tutto ciò abbia a che fare con il conclamato impoverimento, indebitamento e declassamento di settori consistenti di lavoratori, pensionati e famiglie, anche nel nostro Paese, è fuor di dubbio.
Dobbiamo dire che la crisi viene da lontano, dal programma liberista di Reagan/Tatcher, dall’insofferenza dell’establishment finanziario anglosassone verso i vincoli ereditati dalla Grande Crisi, dalla fine della “vigilanza strutturale” sul sistema bancario e dal passaggio alla “vigilanza prudenziale”, dall’affidamento della valutazione del merito di credito non più al banchiere ma al mercato, considerato di gran lunga più adatto a stimare e gestire il rischio, secondo il mainstream neoliberista e la sua onnipresente omiletica. Questa sostituzione, operata soprattutto dai colossi bancari d’investimento ed assicurativi, ha realizzato profitti enormi perseguendo la “massimizzazione del valore per l’azionista” e corrisposto compensi impensabili ai manager. Fino all’esplosione della crisi nel 2008.
In tema si segnala anche un editoriale di Martin Wolf apparso sul Financial Times di Gennaio in cui l’autorevole commentatore, sottolineando che da metà anni ’70 la retribuzione dei lavoratori ordinari è cresciuta molto meno della produttività, avverte le élite sul rischio concreto di una rivolta dei perdenti della globalizzazione e sulle rischiose derive politiche alimentate dal crescente risentimento verso le classi dirigenti.
Mi sembra acquisito che la causa strutturale della svolta del 2008 non sia stata la finanza avida ed irresponsabile ma la regressione del lavoro – dei padri e dei figli – e la conseguente impennata della disuguaglianza di reddito, ricchezza e mobilità sociale. Le degenerazioni della finanza hanno coperto e reso politicamente sostenibile l’impoverimento delle classi medie nelle economie mature. Pertanto il termine crisi è riduttivo per descrivere l’accaduto. Più corretto è definirla transizione verso un diverso ordine. È stata rimossa dalla discussione la novità politica oltre che economica dell’ultimo quarto di secolo: la drammatica asimmetria nei rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Da un lato il capitale a caccia di lavoro low cost nelle praterie dell’economia globale; dall’altra il lavoro relegato nella dimensione locale della politica e del sindacato. La finanza è stata la risposta alla stagnazione da domanda, figlia della sconfitta del lavoro. La sinistra seguace della “terza via” ha subito la subalternità al paradigma neoconservatore e, al momento della crisi, si è trovata priva di una credibile interpretazione degli avvenimenti. Si è trattato di una reale débacle intellettuale. Certo l’insistenza dei conservatori europei e di larga parte delle tecnocrazie sulla ricetta liberista porta alla fine del modello sociale europeo oltre che al collasso dell’euro e dell’Unione europea.
Nell’interpretazione di Fischer la crisi è tratteggiata con qualche concisione circa la vicenda tedesca, forse perché la sconfitta elettorale della coalizione rosso-verde che ha governato la Germania dal 1998 al 2005 si deve anche alle conseguenze del programma di revisione dello stato sociale Agenda 2010 che ha permesso al Paese di ritornare competitivo, ma di scoprirsi più povero. Erano gli anni in cui la stampa anglosassone definiva la Germania “il malato d’Europa”, in crescita costantemente inferiore alla media comunitaria, appesantita dallo sforzo straordinario compiuto per la riunificazione. Anche l’Italia, all’epoca, aveva incrementi della ricchezza superiori a quelli tedeschi. Poi la Germania ha invertito la rotta, mettendo in difficoltà i partner commerciali europei grazie alla strategia di deflazione salariale ed alla presenza dell’euro, accumulando enormi surplus commerciali nei confronti della periferia della Ue. La Germania cresce stabilmente più dell’eurozona dal 2006, con l’eccezione del 2008, l’anno della crisi ed ha dimostrato un tempismo perfetto nel cogliere i vantaggi dell’unione monetaria.
Secondo Jurgen Habermas “l’equilibrio tra politica e mercato è andato fuori sincrono, a spese dello stato sociale.[…] Io non capisco come un ritorno agli Stati- nazione da gestire come grandi società di capitali in un mercato globale possa contrastare la tendenza alla de-democratizzazione e alla crescente disuguaglianza sociale”. Quest’ultima notazione polemica è rivolta alla tesi del sociologo Wolfgang Streeck che in “Tempo guadagnato” sostiene che un capitalismo in affanno, in disaccordo crescente con le aspettative dei cittadini e con le sue stesse esigenze di crescita, sta cercando di ritardare una crisi sistemica trasformando con successo la UE in una macchina per sottrarre la sfera economica al controllo democratico. La via d’uscita, secondo Streeck, sarebbe quella di riportare il conflitto di classe nell’ambito dello Stato nazionale, rinunciando alla prospettiva dell’Unione politica. Sono le strade divergenti prospettate dagli ultimi eredi della Scuola di Francoforte.
Fischer si sofferma sul problema del debito pregresso di cui alcuni Stati europei non riescono a venire a capo in una situazione di crisi perdurante. “Senza una soluzione comune all’interno dell’Eurogruppo…questi Paesi non riusciranno più ad uscire da questa trappola. Ma una comune politica del debito è una bestemmia dal punto di vista della politica interna tedesca”. L’autore sottolinea a questo punto la sorprendente assenza di memoria storica della Germania. Infatti la ripresa della Repubblica Federale dopo il secondo conflitto mondiale non fu dovuta solo al piano Marshall, ma ad un colossale taglio del debito del Reich tedesco verso l’estero, passato alla Repubblica Federale, che fu concesso nel 1952. Memori poi degli errori commessi in relazione ai risarcimenti dei danni di guerra imposti alla Germania dopo la Guerra del 1914-1918, i vincitori occidentali del secondo conflitto mondiale di fatto vi rinunciarono. Questi gesti politici di portata decisiva sono stati alla base del “miracolo economico tedesco”.
Con riferimento alla nozione/percezione del debito in area tedesca Mario Pezzella rintraccia una sorta di “teologia del denaro” in un frammento di Walter Benjamin (traduzione e introduzione di C. Salzani) in cui si radicalizzano le idee di Weber sul rapporto tra modo di produzione capitalista e cristianesimo. Se per Weber il capitale nella sua forma moderna è stimolato dalla concezione calvinista della grazia e del peccato e poi procede alla sua secolarizzazione profana, per Benjamin è esso stesso religione: priva di dogmi, ma con un suo culto ineluttabile e continuo, colpevolizzante-indebitante. Secondo Pezzella “Questa relazione è sottolineata dal termine tedesco Schuld, che significa allo stesso tempo debito e colpa, ed esprime con precisione la morale calvinista del lavoro: chi ha denaro, ed è dunque considerato solvibile, porta in tal modo un segno della Grazia ricevuta, mentre chi resta schiacciato dall’insolvenza e dal fallimento economico mostra di non poter superare lo stato di peccato. Solvibilità e redenzione da una parte; debito e colpevolezza dall’altra”.
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(1, continua)
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Nella foto di copertina: William Hogarth,Tailpiece