Si corre il rischio di dare una valutazione superficiale dell’intervista di ieri a Repubblica di Renzi, se non la si leggesse con la necessaria attenzione. Il rischio di non scorgere nulla di significativo, nulla circa un’idea di partito, di sinistra e di sinistra di governo. Invece c’è molto e molto illuminante.
La cosa più evidente è che, a dispetto del virgolettato del titolo dell’intervista stessa “Io, la sinistra e i miei errori: così cambierò il partito”, non si scorge alcuna autocritica seria, alcuna analisi su eventuali errori. Al contrario, vi è una puntuale e puntigliosa rivendicazione dei presunti meriti del Governo che, se non colti, è solo a causa di un qualche difetto di comunicazione. Questo vale, in particolar modo, per il referendum costituzionale. Sfugge alla memoria di Renzi l’esito non brillante delle scorse parziali amministrative, valendo solo quello delle ultime europee e su questo, e solo su questo, valuta lo stato di salute del PD.
Ma qual è l’idea che ha del PD e dei partiti in generale? Ecco, a questo proposito un passaggio particolarmente significativo: “Anni fa, quando qualcuno mi consigliava di fare un partito nuovo, ho sempre risposto che se fosse un giorno capitato di andare a Palazzo Chigi un conto sarebbe stato andarci come capo della sinistra italiana, e tutt’altro conto come un passante che ha vinto la lotteria”. Quindi, e presumo di non forzare il suo pensiero, il PD è solo un mezzo, uno strumento utilizzato per varcare il portone della Presidenza del Consiglio.
E forse Freud e i suoi proverbiali “lapsus” ci potrebbero svelare il senso di altre due sue affermazioni, una in risposta alla sua predisposizione al “mestiere di segretario” (Vedremo se sarò capace, le rispondo tra qualche mese), l’altra sul futuro della sinistra che dovrebbe “tenere insieme le tradizioni e il futuro”, come se dal 2013 ad oggi il segretario fosse stato qualcun altro e il costante richiamo di molti (Rossi, ma non solo) a non disperdere le radici storiche, politiche e culturali del PD, non fosse mai giunto dalle parti di Largo Nazareno o a Palazzo Chigi.
Tralasciamo e releghiamo a pura boutade la denuncia di attacchi pesanti e personali alla sua persona, dall’interno del PD (come se su questo terreno Renzi stesso e molti di quelli a lui particolarmente vicini, della prima, seconda e terza ora, non si siano mai cimentati) e segnaliamo la sua idea di aria nuova e fresca di cui il partito avrebbe necessità: “Idee nuove e amministratori vecchi. Sbagliato, non funziona”; “Lanceremo una nuova classe dirigente, gireremo in lungo e in largo l’Italia, scriveremo il programma dei prossimi cinque anni in modo originale”. Quindi, si intuirebbe, è l’anagrafe personale il discrimine per valutare su quali gambe le nuove idee (quali?) possono camminare. Ma, ancora più importante e, per taluni aspetti, ancora più preoccupante, la questione su chi, in che modo e con quali criteri si individua, si forma e si lancia una nuova classe dirigente?
Si ha l’impressione di essere difronte ad un leader appena legittimato dal consenso degli iscritti, militanti e simpatizzanti del suo partito che si appresta ad una nuova sfida elettorale. In realtà, particolare non trascurabile, Renzi è un leader a fine mandato e che dovrà misurarsi all’interno di un Congresso e solo ed unicamente questo potrà legittimarlo a realizzare il suo programma. Già, il Congresso.
Nella lunghissima intervista non è citato una sola volta, mai preso in considerazione. Non cedo alla tentazione di qualsivoglia illazione in merito e confido nel fatto che il tema sia posto al più presto all’ordine del giorno. Non è possibile pensare al futuro del PD e della sinistra senza un passaggio congressuale che deve avere la priorità su qualsiasi altra scelta politica, perché qualsiasi altra scelta non può prescindere dalla leadership del PD, sul programma sulla quale è stata costruita e affermata, sulla ulteriore scelta, non secondaria, dell’auspicabile divisione tra il ruolo di segretario del partito e candidato premier. Perché non convince la sua visione della sinistra la cui funzione sarebbe quella di abbassare le tasse e non andare al rimorchio del sindacato. Questa è una considerazione non solo superficiale ma completamente estranea alla nostra storia della sinistra e al nostro ruolo. La sinistra non si è mai caratterizzata per volere una tassazione più alta, questo è stato un cavallo di battaglia usato per anni da Berlusconi e che lo stesso considera oramai desueto. La sinistra è stata, da sempre, per un fisco equo: paghi di più chi ha di più, paghi di meno chi ha di meno. La soppressione generalizzata dell’IMU, ad esempio, non è di sinistra. Il tutto finalizzato a garantire servizi universali (sanità, istruzione, ecc.). E da quando il sindacato ha dettato l’agenda politica alla sinistra? Tutte le conquiste in tema di diritti e di dignità del lavoro, tutte le più intese sulle politiche economiche nazionali, sono state possibili con il sindacato e non contro di esso. Tanti, troppi i nodi che il PD deve sciogliere e devono essere sciolti solo all’interno di un vero congresso. Renzi e l’attuale maggioranza del PD se ne facciano una ragione.