Ad ogni disastro ambientale, puntualmente, si recita lo stesso copione e la fine è nota: una tragedia, un dialogo fra i (sordi) protagonisti che si rimpallano le responsabilità e, infine, l’oblio… fino alla prossima rappresentazione drammatica. Già si vedono, purtroppo, nel dramma di Livorno i primi atti di questo dramma. Otto morti (che sono una enormità, anche rispetto ai tre dell’uragano Irma in Florida), le responsabilità degli altri (Nogarin sull’allerta solo “arancione” della Protezione Civile regionale, ma non ci dice cosa ha fatto a fronte di quel livello di allerta che richiede comunque un’azione positiva dei sindaci; il Pd di Livorno su Nogarin “dimenticando” di aver governato il territorio ininterrottamente per decenni; ecc.), forse qualche indagine pro-forma della magistratura, il cordoglio e i funerali delle vittime, richieste e stanziamento di soldi per la ricostruzione (con i quali, magari, si “pulirà” qualche argine rendendo così ancora più rapido lo scorrimento delle acque piovane, e si erigeranno nuovi immobili andati distrutti nelle zone a rischio idrogeologico ma con fondamenta più solide e profonde), le solenni dichiarazioni del “mai più” (salvo eccezioni…) e poi via, verso nuove tragedie dei suoli. Si discuterà ancora un po’ sul fatto che i Comuni non hanno più soldi e, quindi, non fanno la manutenzione del territorio, dei tombini e dei corsi d’acqua (che prima facevano le Province, svuotate di funzioni e rappresentanza dalla furia iconoclasta rottamatrice che intendeva, però, lisciare per il verso del pelo la retorica populista degli enti inutili). Si metterà qualche toppa (milioni di Regione, Governo e chissà di altro, in una rincorsa mediatica a chi è più pronto e generoso, senza però che, nel tempo, un amministratore o un giornalista vada a verificare se i soldi sono arrivati e se e come sono stati spesi).
Ma, infine, le responsabilità vere, non quelle sulla gestione dell’emergenza che magari la magistratura, in un modo o nell’altro, potrà anche incaricarsi di individuare. Intendo le responsabilità profonde che attengono al governo del territorio, che è la vera causa degli effetti devastanti di eventi pur estremi. Perché, se è indubbio che i cambiamenti climatici in corso si manifestano anche attraverso la ripetizione e la crescita esponenziale di fenomeni estremi (precipitazioni, temperature, i cui indici sono stati definiti e vengono analizzati in Italia dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale e a livello internazionale dall’Intergovernmental Panel on Climate Change da molti anni), è pur vero che una corretta gestione del territorio può ridurre significativamente gli impatti negativi.
Nella foto: Livorno, dopo l’alluvione
E’ ciò che si chiama “resilienza”, l’adattamento ai cambiamenti climatici in atto; mentre si può e si deve invertire la tendenza del cambiamento in atto modificando radicalmente e velocemente il modello di sviluppo fondato sull’approvvigionamento energetico ancora troppo fondato sui combustibili fossili e sul carbone (che continua a ricevere invece enormi risorse pubbliche: la rivista World Development ha pubblicato uno studio che mette in evidenza come i combustibili fossili beneficiano di 5,3 trilioni di dollari in sussidi, quando erano 4,9 appena due anni prima).
Entrambe le politiche richiedono iniziative coerenti e decise: dalla rinaturalizzazione di corsi d’acqua precedentemente tombati o cementificati alla demolizione di costruzioni in aree a rischio idraulico, dal disinvestimento finanziario in aziende nella filiera del carbone alla sostituzione di produzioni alimentate a carbone o produttrici di CO2 con produzioni ad energia rinnovabile e a minori emissioni. Si tratta di fare delle politiche concrete (non dichiarazioni d’intenti), di scala sufficiente a rendere rilevanti gli effetti e che aggrediscano il vero motore delle politiche negative per l’ambiente: la finanza. Il rapporto “Banking on Climate Change: Fossil Fuel Finance Report Card 2017” dimostra come le banche di tutto il mondo (dunque, anche quelle italiane) abbiano contribuito a finanziare nuovi progetti fondati sui combustibili fossili in tutti i settori che maggiormente contribuiscono ai cambiamenti climatici per 290 miliardi di dollari negli ultimi 3 anni.
Ho scelto volontariamente esempi forti per dire che le politiche ambientali necessarie oggi non sono neutre, né nominalistiche; richiedono bensì coraggio e sostanza. Walter Veltroni, in un recente articolo su Repubblica su sinistra e ambiente, lamentando che il Pd ha dimenticato la battaglia per l’ecologia, sostiene che bisogna cambiare verbo all’ambientalismo. O almeno aggiungerne uno a quello tradizionale, difendere. L’ambientalismo infatti è “promozione”.
Ora, abbiamo già visto come l’esercitarsi sulla nomenclatura dell’ambientalismo non abbia evitato l’affermarsi di politiche esattamente contrarie alla sostenibilità, basta ricordare la crociata renziana contro l’ambientalismo del No, a favore di un ambientalismo positivo. Infatti, mentre indubbiamente sono cresciute (come in tutto il mondo) gli impianti di produzione di energie rinnovabili, non sono diminuiti i fenomeni di consumo e impermeabilizzazione dei suoli. Questo fenomeno è fra i più preoccupanti e gravi, ma non scende giù dal cielo miracolosamente come la manna: è il frutto di consapevoli (e sbagliate) politiche di governo del territorio.
Nella foto: Livorno, il palazzo dove hanno trovato la morte quattro persone
ISPRA ha presentato un rapporto secondo il quale da novembre 2015 a maggio 2016, nonostante la crisi economica, l’Italia ha consumato quasi 30 ettari di suolo al giorno, per un totale di 5 mila ettari di territorio, l’equivalente di 200.000 villette. Con una velocità di 3 mq. al secondo, il consumo di suolo ha cancellato, al 2016, 23 mila kmq. (pari alla dimensione di Campania, Molise e Liguria messe insieme), il 7,6% del territorio nazionale. ISPRA stima al 2050 una perdita di ulteriori 1.635 kmq, di 3.270 kmq in caso si mantenesse la bassa velocità di consumo dovuta alla crisi economica e di 8.326 kmq nel caso in cui la ripresa economica riportasse la velocità al valore di 8 mq al secondo registrato negli ultimi decenni. Il consumo di suolo è stata una costante italiana: dagli anni ‘50 al 2016, il consumo di suolo nazionale è passato dal 2,7% al 7,6%, con una crescita del 184%. Insomma, non è legittimo meravigliarsi se si consumano tragedie ad ogni precipitazione importante se al posto di terreno libero e naturale in zone a rischio troviamo abitazioni, fabbriche, strade o canali tombati.
Come accaduto a Livorno, dove questa scellerata gestione dei suoli non può certo essere imputata a Nogarin, caso mai ai suoi predecessori che avranno coperto il canale per farci un parcheggio per qualche declamata ragione di sviluppo. Ma il punto non è nominalistico, piuttosto una questione di interessi: quelli che rappresentano le ragioni dell’ambiente sono infinitamente più deboli e fragili di quelli che rappresentano lo sviluppo quantitativo immediato. Questo, e solo questo infine, è il motivo per cui anche il Pd ha dimenticato la battaglia per l’ecologia. Ed è stata una battaglia anche dentro i vari partiti della sinistra, dall’ultimo PCI, passando per il PDS e i DS, fino al PD, nei quali la componente e la cultura ambientaliste non sono mai riuscite – salvo rari e brevi momenti – a diventare egemoni e quindi a condizionarne le politiche del territorio. Anzi, è avvenuto quello che diceva Veltroni: nominalmente la sinistra ha fatto proprie le parole d’ordine della sostenibilità, dell’ambientalismo, ma queste non si sono trasferite nelle concrete politiche di governo del territorio.
Con questa contraddizione la sinistra deve onestamente e umilmente fare i conti, decidendo se voglia davvero assumere le politiche per l’ambiente al centro della propria cultura politica come dei propri programmi di governo. Solo così, il finale del dramma potrà cambiare.
Livorno, o cara
Ad ogni disastro ambientale, puntualmente, si recita lo stesso copione e la fine è nota: una tragedia, un dialogo fra i (sordi) protagonisti che si rimpallano le responsabilità e, infine, l’oblio… fino alla prossima rappresentazione drammatica. Già si vedono, purtroppo, nel dramma di Livorno i primi atti di questo dramma. Otto morti (che sono una enormità, anche rispetto ai tre dell’uragano Irma in Florida), le responsabilità degli altri (Nogarin sull’allerta solo “arancione” della Protezione Civile regionale, ma non ci dice cosa ha fatto a fronte di quel livello di allerta che richiede comunque un’azione positiva dei sindaci; il Pd di Livorno su Nogarin “dimenticando” di aver governato il territorio ininterrottamente per decenni; ecc.), forse qualche indagine pro-forma della magistratura, il cordoglio e i funerali delle vittime, richieste e stanziamento di soldi per la ricostruzione (con i quali, magari, si “pulirà” qualche argine rendendo così ancora più rapido lo scorrimento delle acque piovane, e si erigeranno nuovi immobili andati distrutti nelle zone a rischio idrogeologico ma con fondamenta più solide e profonde), le solenni dichiarazioni del “mai più” (salvo eccezioni…) e poi via, verso nuove tragedie dei suoli. Si discuterà ancora un po’ sul fatto che i Comuni non hanno più soldi e, quindi, non fanno la manutenzione del territorio, dei tombini e dei corsi d’acqua (che prima facevano le Province, svuotate di funzioni e rappresentanza dalla furia iconoclasta rottamatrice che intendeva, però, lisciare per il verso del pelo la retorica populista degli enti inutili). Si metterà qualche toppa (milioni di Regione, Governo e chissà di altro, in una rincorsa mediatica a chi è più pronto e generoso, senza però che, nel tempo, un amministratore o un giornalista vada a verificare se i soldi sono arrivati e se e come sono stati spesi).
Ma, infine, le responsabilità vere, non quelle sulla gestione dell’emergenza che magari la magistratura, in un modo o nell’altro, potrà anche incaricarsi di individuare. Intendo le responsabilità profonde che attengono al governo del territorio, che è la vera causa degli effetti devastanti di eventi pur estremi. Perché, se è indubbio che i cambiamenti climatici in corso si manifestano anche attraverso la ripetizione e la crescita esponenziale di fenomeni estremi (precipitazioni, temperature, i cui indici sono stati definiti e vengono analizzati in Italia dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale e a livello internazionale dall’Intergovernmental Panel on Climate Change da molti anni), è pur vero che una corretta gestione del territorio può ridurre significativamente gli impatti negativi.
E’ ciò che si chiama “resilienza”, l’adattamento ai cambiamenti climatici in atto; mentre si può e si deve invertire la tendenza del cambiamento in atto modificando radicalmente e velocemente il modello di sviluppo fondato sull’approvvigionamento energetico ancora troppo fondato sui combustibili fossili e sul carbone (che continua a ricevere invece enormi risorse pubbliche: la rivista World Development ha pubblicato uno studio che mette in evidenza come i combustibili fossili beneficiano di 5,3 trilioni di dollari in sussidi, quando erano 4,9 appena due anni prima).
Entrambe le politiche richiedono iniziative coerenti e decise: dalla rinaturalizzazione di corsi d’acqua precedentemente tombati o cementificati alla demolizione di costruzioni in aree a rischio idraulico, dal disinvestimento finanziario in aziende nella filiera del carbone alla sostituzione di produzioni alimentate a carbone o produttrici di CO2 con produzioni ad energia rinnovabile e a minori emissioni. Si tratta di fare delle politiche concrete (non dichiarazioni d’intenti), di scala sufficiente a rendere rilevanti gli effetti e che aggrediscano il vero motore delle politiche negative per l’ambiente: la finanza. Il rapporto “Banking on Climate Change: Fossil Fuel Finance Report Card 2017” dimostra come le banche di tutto il mondo (dunque, anche quelle italiane) abbiano contribuito a finanziare nuovi progetti fondati sui combustibili fossili in tutti i settori che maggiormente contribuiscono ai cambiamenti climatici per 290 miliardi di dollari negli ultimi 3 anni.
Ho scelto volontariamente esempi forti per dire che le politiche ambientali necessarie oggi non sono neutre, né nominalistiche; richiedono bensì coraggio e sostanza. Walter Veltroni, in un recente articolo su Repubblica su sinistra e ambiente, lamentando che il Pd ha dimenticato la battaglia per l’ecologia, sostiene che bisogna cambiare verbo all’ambientalismo. O almeno aggiungerne uno a quello tradizionale, difendere. L’ambientalismo infatti è “promozione”.
Ora, abbiamo già visto come l’esercitarsi sulla nomenclatura dell’ambientalismo non abbia evitato l’affermarsi di politiche esattamente contrarie alla sostenibilità, basta ricordare la crociata renziana contro l’ambientalismo del No, a favore di un ambientalismo positivo. Infatti, mentre indubbiamente sono cresciute (come in tutto il mondo) gli impianti di produzione di energie rinnovabili, non sono diminuiti i fenomeni di consumo e impermeabilizzazione dei suoli. Questo fenomeno è fra i più preoccupanti e gravi, ma non scende giù dal cielo miracolosamente come la manna: è il frutto di consapevoli (e sbagliate) politiche di governo del territorio.
ISPRA ha presentato un rapporto secondo il quale da novembre 2015 a maggio 2016, nonostante la crisi economica, l’Italia ha consumato quasi 30 ettari di suolo al giorno, per un totale di 5 mila ettari di territorio, l’equivalente di 200.000 villette. Con una velocità di 3 mq. al secondo, il consumo di suolo ha cancellato, al 2016, 23 mila kmq. (pari alla dimensione di Campania, Molise e Liguria messe insieme), il 7,6% del territorio nazionale. ISPRA stima al 2050 una perdita di ulteriori 1.635 kmq, di 3.270 kmq in caso si mantenesse la bassa velocità di consumo dovuta alla crisi economica e di 8.326 kmq nel caso in cui la ripresa economica riportasse la velocità al valore di 8 mq al secondo registrato negli ultimi decenni. Il consumo di suolo è stata una costante italiana: dagli anni ‘50 al 2016, il consumo di suolo nazionale è passato dal 2,7% al 7,6%, con una crescita del 184%. Insomma, non è legittimo meravigliarsi se si consumano tragedie ad ogni precipitazione importante se al posto di terreno libero e naturale in zone a rischio troviamo abitazioni, fabbriche, strade o canali tombati.
Come accaduto a Livorno, dove questa scellerata gestione dei suoli non può certo essere imputata a Nogarin, caso mai ai suoi predecessori che avranno coperto il canale per farci un parcheggio per qualche declamata ragione di sviluppo. Ma il punto non è nominalistico, piuttosto una questione di interessi: quelli che rappresentano le ragioni dell’ambiente sono infinitamente più deboli e fragili di quelli che rappresentano lo sviluppo quantitativo immediato. Questo, e solo questo infine, è il motivo per cui anche il Pd ha dimenticato la battaglia per l’ecologia. Ed è stata una battaglia anche dentro i vari partiti della sinistra, dall’ultimo PCI, passando per il PDS e i DS, fino al PD, nei quali la componente e la cultura ambientaliste non sono mai riuscite – salvo rari e brevi momenti – a diventare egemoni e quindi a condizionarne le politiche del territorio. Anzi, è avvenuto quello che diceva Veltroni: nominalmente la sinistra ha fatto proprie le parole d’ordine della sostenibilità, dell’ambientalismo, ma queste non si sono trasferite nelle concrete politiche di governo del territorio.
Con questa contraddizione la sinistra deve onestamente e umilmente fare i conti, decidendo se voglia davvero assumere le politiche per l’ambiente al centro della propria cultura politica come dei propri programmi di governo. Solo così, il finale del dramma potrà cambiare.
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Simone Siliani
Simone Siliani, è nato il 10 giugno 1962, cittadino del mondo per nascita: cittadino americano e italiano. Adolescente, si innamora della politica e sceglie la parte della sinistra: scelta difficile per lui, cristiano, in un tempo in cui il mondo era ancora diviso sulla linea di Yalta. Incontra padre Ernesto Balducci e il movimento per la pace negli anni' 80 e essere di sinistra vuol dire passione per il “mondo offeso”: l'impegno per gli ultimi, per l'ambiente, per i diritti di tutti, per la giustizia. Un terreno sempre da arare e coltivare senza le inossidabili certezze e le liturgie dell'ideologia; una ricerca mai esaurita perché né la storia, né la sinistra lo sono. Dopo una vita nelle istituzioni (Regione Toscana, Comune di Firenze), ora naviga in mare aperto, dove la società cerca di costruire ancora spazi di solidarietà e giustizia e tiene accesa la speranza nell'attuale (temporaneo?) silenzio della politica.
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