
Lo sguardo delle donne per superare le differenze tra i generi
Nella bella e affollata assemblea del 19 novembre di Articolo Uno, assemblea in preparazione della quale sono arrivati dai territori molti e significativi contributi al documento nazionale, si è discusso di temi e proposte, meno di alleanze.
Dalla Lombardia è stato presentato un documento riguardante le politiche di genere, sottoscritto da tutte e tutti i coordinatori provinciali, dalla maggioranza dei parlamentari lombardi e dai due consiglieri regionali, oltre che da compagne e compagni dei territori.
In questo documento si fotografa la realtà e la realtà, secondo l’ultimo Global Gender Gap Report, è che l’Italia continua ad arretrare per le persistenti differenze tra i generi in ogni campo sociale.
Solo quest’anno il nostro Paese ha perso ben 22 posizioni collocandosi all’82esimo posto su 144 Paesi, mentre Francia e Germania si piazzano all’11esima e 12esima posizione, la Gran Bretagna alla 15esima (l’anno scorso era alla 20esima). Questo arretramento non accenna ad arrestarsi dal 2006, anno di creazione dell’indice, quando eravamo al 77esimo posto.
I dati nazionali più allarmanti riguardano il fronte della partecipazione economica (118esimo posto, nel 2006 era 87esimo): siamo al 126 esimo posto per gap salariale e al 103esimo per salari femminili tout court. Secondo il Wef, il 61,5% delle lavoratrici italiane non percepisco alcuna retribuzione o non vengono pagate adeguatamente, contro il 22,9% degli uomini. Non va meglio sul fronte delle partecipazione al lavoro che ci vede all’89esimo posto. L’indice meno negativo è quello del potere politico che prende in esame la percentuale di donne in Parlamento e nei ministeri, che comunque ci colloca al 49esimo posto. Tale indice é seguito da quelli dell’istruzione che ci vede al 60esimo posto.
Il primato per cui si distingue l’Italia riguarda il lavoro: le donne lavorano di più, e in questo l’Italia è in testa. Le donne italiane continuano a lavorare ogni giorno 326 minuti più degli uomini includendo lavori domestici e di cura per casa, figli e genitori anziani. L’Ocse conferma d’altronde la disfatta delle italiane relativamente ad almeno tre indicatori fondamentali: il tasso d’occupazione (47% rispetto al 60% della media), con salari inferiori del 12% rispetto agli uomini, il tasso di fertilità (1,4 figli a testa) e, appunto, quantità di tempo dedicato a cura e pulizie. Secondo il rapporto, ogni donna in Italia dedica 36 ore la settimana ai lavori domestici, mentre gli uomini non vanno oltre le 14. Sono 22 ore di differenza e si tratta del divario maggiore tra tutti i Paesi industrializzati.
Non è accettabile e non è più sostenibile un sistema Paese che appoggia il suo peso sulle spalle delle donne, non è accettabile che siano le donne le prime ad uscire dal mercato del lavoro e le prime alle quali lo Stato chiede lo sforzo del lavoro di cura di anziani e bambini.
È un Paese profondamente disuguale e ingiusto il nostro, in cui nascere maschio o femmina condiziona ancora le opportunità economiche e di carriera: il World Economic Forum ci colloca al 124esimo posto su 136 Paesi per quanto riguarda la parità degli stipendi, quando le donne hanno il privilegio di tornare al lavoro dopo il primo figlio, perché il 30% delle donne rinuncia, schiacciata dal peso di una fatica che non riesce a sostenere. E allora, una sinistra che voglia rovesciare lo stato di cose presenti, che voglia agire il cambiamento, non può non pensare che il lavoro gratuito delle donne, socio dello Stato che non compare nel PIL ma che tiene in piedi il Paese, non può non far propria la sofferenza della metà del Paese, non può evitare di fare i conti con quegli indici, quelle indagini, che raccontano la vita reale delle donne. E allora che fare? Ad esempio, fatto salvo il principio secondo il quale l’obiettivo cui tendere è l’abbattimento della disuguaglianza tra retribuzione femminile e maschile, vi sono altre diverse condizioni che concorrono ad una profonda disparità, date dal genere sessuale.

Le donne che non hanno figli, vengono purtroppo discriminate, sia da datori di lavoro che chiedono loro se ne vorranno avere, sia da colleghe e colleghi che da loro pretendono di più, come se queste donne non avessero null’altro da fare e come se, comunque, la loro vita fosse a disposizione d’altri.
Per le donne che diventano madri, invece, tornare al lavoro dopo il parto, senza l’appoggio delle nonne (altre donne alle quali lo Stato affida le sue colpevoli mancanze) e con una condizione psicologica e fisica di fragilità, è difficile, soprattutto entro il primo anno d’età del piccolo: il periodo di aspettativa retribuito al 30% dopo l’astensione obbligatoria, non è in grado di garantire un livello minimo di autonomia economica, quindi deve essere innalzato al 50% per tutte le donne e al 70% per le donne sole, anche intervenendo sulle imposte sui redditi e sui contributi.
Per quanto riguarda il sistema educativo e scolastico, la pratica che porterebbe maggior beneficio, sia agli educatori che alle famiglie, è quella di inserire gli asili nido nel piano educativo scolastico della fascia d’età 0-6, sottraendo l’asilo nido dai servizi a domanda individuale e sviluppando una rete di servizi pubblici a gestione diretta delle Autonomie Locali, per i quali è necessario prevedere uno specifico e capiente capitolo di spesa.
Per quanto concerne la cura degli anziani, è necessario investire nella costruzione e programmazione dei cosiddetti condomini solidali, forme di solidarietà e convivenza tra anziani soli o coppie di anziani.
Nel caso in cui le famiglie non siano in grado di occuparsi degli anziani sotto altre forme, le case di riposo dovranno predisporre tariffe sulla base del reddito del solo anziano e non di tutta la famiglia.
C’è poi tutto l’aspetto che riguarda la salute delle donne, nella sfera sessuale e riproduttiva, ed è necessario investire nell’apertura di consultori che si occupino delle donne dalla pubertà alla menopausa.
C’è un altro dato preoccupante: il ritorno degli aborti clandestini e l’umiliazione continua. La 194 deve tornare ad essere legge effettiva dello Stato, e non aggirata da ospedali che non si curano di garantire un numero sufficiente di medici non obiettori.
D’altro canto sono necessari cospicui investimenti economici e culturali in consultori rivolti agli uomini con tendenze violente e predatorie, perché è ora che inizino gli uomini ad occuparsi di violenza di genere, e bisogna che fin dalle scuole primarie si inserisca nel piano di studi l’educazione sentimentale, non solo quindi la sfera sessuale deve essere affrontata, ma anche quella affettiva e relazionale, legata al pieno rispetto e alla piena dignità degli esseri umani, donne e uomini.
E’ ineludibile quindi, per una forza che si ponga come orizzonte il cambiamento della società, assumere la cultura delle differenze di genere come elemento fondante della sua riflessione culturale e del suo agire politico, creando anche le condizioni per una rappresentanza paritaria tra gli eletti nelle assemblee istituzionali e nei luoghi decisionali. Lo sguardo delle donne non è più rappresentabile da uomini che si sentono in diritto di parlare al posto loro.
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Nella foto di copertina: L’assemblea del 19 novembre di Articolo Uno, nella quale è stato presentato un documento riguardante le politiche di genere, sottoscritto da tutte e tutti i coordinatori provinciali, dalla maggioranza dei parlamentari lombardi e dai due consiglieri regionali, oltre che da compagne e compagni dei territori.