In un suo testo recente Domenico De Masi, noto sociologo del lavoro, rileva che il “bilanciamento fra offerta e domanda di lavoro” – è “in crescente squilibrio“, e definisce (una precisazione non inutile, poiché spesso il senso dei due termini viene ribaltato) come “offerta” «il numero di persone disposte a offrire i propri servizi lavorativi e il numero di ore di lavoro che esse sono disposte a lavorare», e come “domanda” «la disposizione dei datori di lavoro ad assumere personale, il numero di posti disponibili, il numero di ore che i datori di lavoro offrono».
Questa definizione, corretta nella sua completezza, deve (dovrebbe) sempre essere tenuta a mente per fare analisi corrette, nel senso che il rapporto fra il numero di ore offerte e quelle richieste costituisce un parametro decisivo per definire la quantità reale di occupazione, ciò che invece spesso si trascura nel presentare e nel giudicare le statistiche a questa relative – anche quelle dell’Istat, come le ultime appena uscite che vengono, come sempre, trionfalmente sbandierate da chi ha interesse ad addolcire la realtà per attribuirsi meriti invece inesistenti.
In chiaro: se, facendo un caso estremo per esemplificare, c’è un’offerta di lavoro di mille persone per complessive 30.000 ore settimanali perché, poniamo, ve ne sono alcune che non sono disposte ad occuparsi a tempo pieno, ed a questa corrisponde un’occupazione di mille posti – incontro perfetto, in questo caso “iperbolico“, fra offerta e domanda di posti di lavoro – per complessive 15.000 ore settimanali, non è corretto dire che vi sia “piena occupazione” badando solo al numero di posti occupati (1.000 su 1.000), perché in realtà in quel modo viene soddisfatto solo il 50% dell’offerta di ore di lavoro, 15.000 contro 30.000. E’ quanto normalmente avviene, e di cui quasi sempre non si tiene conto – per sciatteria o per interesse – nel presentare le statistiche occupazionali, che definiscono il “tasso di occupazione” come l’inverso del rapporto fra il numero di persone in età di lavoro, 15-64 anni, e quelli “occupati” non importa per quante ore: è evidente che in tal modo viene fornita una rappresentazione scorretta, in quanto molto più “ottimistica”, della realtà occupazionale. La condizione del Paese dipende dai numeri veri dell’occupazione e di altri parametri “sensibili“, non da quelli strumentalmente e non di rado falsamente esibiti.