E’ invero singolare l’evocazione dei numi tutelari del PCI e la loro preferenza per il monocameralismo nel presente dibattito sulla riforma costituzionale approvata dal Parlamento, in vista del referendum costituzionale d’autunno. E non solo per l’ovvia constatazione che il monocameralismo del PCI di allora (che niente ha a che vedere con il PD di oggi, credo, neppure per quanto concerne la base elettorale) si muoveva in un ambiente istituzionale caratterizzato da un sistema di governo fortemente parlamentare e da un sistema elettorale proporzionale.
No, ciò che sorprende è che il confronto non è fra monocameralimo (dei sostenitori della riforma) e bicameralismo (gli oppositori) per il semplice motivo che la riforma attuale non è monocamerale. Al contrario, il Parlamento resta organizzato su due rami distinti, che certamente svolgono funzioni diverse e sono diversamente composti; e restano procedimenti legislativi bicamerali, in cui resta vigente il sistema della “navetta”, e ogni legge approvata dalla Camera dei Deputati può essere richiamata dal Senato che può presentare proposte di modifica (entro tempi definiti in Costituzione, quando questa sarebbe materia più propriamente regolamentare), salvo la norma di chiusura che assegna alla Camera dei Deputati la prevalenza e la libertà di accogliere o meno le proposte emendative del Senato.
Quindi, sarebbe meglio non scomodare i padri della patria socialista e stare al testo che il Parlamento ha approvato.
Rispetto al quale non posso che segnalare qui, in prima battuta, alcune questioni.
Quale tipo di bicameralismo abbiamo di fronte? Esso si compone di due aspetti: quello relativo alla composizione del Senato, e quello che riguarda la sua attività, cioè il procedimento legislativo. Qui mi occuperò solo del primo dei due aspetti.
Che genere di Senato è quello disegnato dalla riforma?
In primo luogo non mi pare corretto definirlo, come recita il nuovo articolo 55, la Camera “che rappresenta le istituzioni territoriali”. Ciò è vero solo in parte, in quella che vi vede rappresentati i 22 sindaci di Comuni (1 per ogni regione + 1 ciascuno per le Province autonome di Trento e Bolzano, art.57 co.2 novellato) giacché essi rappresentano effettivamente l’ente territoriale, ma non lo è per la componente regionale, pari a 73 membri del Senato. Questi, infatti, rappresentano piuttosto l’articolazione regionale delle forze politiche e non l’ente il cui interesse è rappresentato dal Presidente e dal governo regionale, così che il Senato assomiglia di più alla Camera dei Deputati sotto questo profilo.
A mio avviso questo è un enorme limite della riforma: l’eterogeneità della legittimazione e della rappresentanza dei senatori. Vi sono 22 sindaci che rappresentano l’ente territoriale, 73 consiglieri regionali che rappresentano le forze politiche di riferimento e non l’interesse unitario dell’ente, 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica che rappresentano competenze e meriti “nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”: un guazzabuglio che non consente di definire con chiarezza il profilo istituzionale di questo Senato. Nel quale, verosimilmente, si comporranno i gruppi su base politica (Pd, FI, Lega Nord, M5S, ecc.) e non rappresentando gli enti (Toscana, Lombardia, i Comuni, ecc.).
La soluzione del problema del bicameralismo paritario sarebbe stata, correttamente, quella di rappresentare nel senato gli interessi degli enti territoriali, così come avviene in Germania nel Bundesrat, dove i voti spettanti ai diversi Lander vengono espressi tutti in blocco anche da un solo rappresentante del Governo del Land. Perché si è ritenuto di non perseguire questa strada? Qualcuno dice perché questo avrebbe dato un vantaggio sproporzionato al Pd che oggi guida 17 regioni su 20. Ma questa è una visione totalmente miope giacché, come dovrebbe essere evidente, le Costituzioni non si fanno né si modificano sulla base degli assetti politici esistenti, ma hanno una prospettiva che certamente travalica le legislature (peraltro tutte sfalsate quelle delle Regioni italiane).
La strada che è stata scelta è invece un ibrido che, a mio avviso, renderà debole il ruolo e l’identità stessa del Senato. La scelta di una elezione indiretta dei senatori da parte dei Consigli regionali al proprio interno (v. art.57 co.2: “I Consigli regionali e i Consigli delle province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti…”) ben difficilmente potrà essere ricondotta ad una elezione diretta (come pure, ad un certo punto, si era dichiarato a seguito dello scontro interno al Pd) dalla previsione del co.6 dello stesso articolo 57 (“con legge approvata da entrambe le Camere sono regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica tra i consiglieri e i sindaci…”). Così che il Senato italiano assomiglierà piuttosto al Bundesrat austriaco che ha dimostrato di non saper esprimere i punti di vista dei territori rappresentati, bensì di avere un modello di funzionamento esclusivamente partitico. Tanto più che nel Senato italiano, come nel Bundesrat austriaco, sarà garantita la rappresentanza della minoranza politica presente nella Regione e nel Land di riferimento.
Si sarebbe potuto, forse, correggere questa stortura? Almeno parzialmente sì. Ad esempio, prevedendo l’obbligo per i senatori di votare in modo unitario come, appunto, avviene nel Bundesrat tedesco. Ma come è possibile obbligare dei senatori che sono anche consiglieri e che nella loro Regione stanno su fronti opposti, maggioranza/opposizione? E’ molto probabile che abbiano delle visioni diametralmente opposte circa l’interesse della propria Regione, soprattutto in una forma di governo regionale caratterizzata da un esecutivo che possiede una forte maggioranza in Consiglio e una dialettica molto radicalizzata fra le forze politiche.
Rimarrebbe, allora, la soluzione dell’elezione diretta, ma, come abbiamo visto, è davvero difficile, se non impossibile, sovvertire l’esplicita previsione dell’elezione indiretta da parte del Consiglio regionale fra i propri membri. Ma se anche fosse, come sarebbe possibile per dei senatori eletti direttamente dal popolo (come negli Stati Uniti, in Svizzera e in Australia) non porsi in una condizione sostanzialmente paritaria con i colleghi deputati? Ma di fatto lo sarebbero perché essi non rappresentano la Nazione (art.55 co.2), eppure contribuiscono ad eleggere i giudici della Corte Costituzionale e il Presidente della Repubblica, sono esclusi dal circuito fiduciario con il Governo, partecipano in vario modo al (complessissimo) procedimento legislativo ma sono sottoposti ad una clausola di supremazia a favore dei colleghi deputati.
Siamo, quindi, di fronte ad un ircocervo di incerta e debole identità, le cui prerogative e i cui poteri si profilano già in partenza assai fragili: una delle soluzioni peggiori immaginabili al pur serio problema del bicameralismo paritario, aggravato da procedimenti legislativi niente affatto semplificati (ne parlerò altrove) e da un affievolirsi dei poteri e delle funzioni legislative delle Regioni in un riparto di materie con lo Stato, foriero di conflitti che immancabilmente finiranno alla Corte Costituzionale.
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Simone Siliani
Simone Siliani, è nato il 10 giugno 1962, cittadino del mondo per nascita: cittadino americano e italiano. Adolescente, si innamora della politica e sceglie la parte della sinistra: scelta difficile per lui, cristiano, in un tempo in cui il mondo era ancora diviso sulla linea di Yalta. Incontra padre Ernesto Balducci e il movimento per la pace negli anni' 80 e essere di sinistra vuol dire passione per il “mondo offeso”: l'impegno per gli ultimi, per l'ambiente, per i diritti di tutti, per la giustizia. Un terreno sempre da arare e coltivare senza le inossidabili certezze e le liturgie dell'ideologia; una ricerca mai esaurita perché né la storia, né la sinistra lo sono. Dopo una vita nelle istituzioni (Regione Toscana, Comune di Firenze), ora naviga in mare aperto, dove la società cerca di costruire ancora spazi di solidarietà e giustizia e tiene accesa la speranza nell'attuale (temporaneo?) silenzio della politica.