Capitale

Occupiamoci anche del capitale

Se dovessi esprimere una opinione sintetica sulla dinamica occupazionale degli ultimi due anni userei la parola “sorpresa”.
Sorpresa per l’aumento che innegabilmente vi è stato e che era, a mio avviso, assolutamente inatteso e non rispondente alle regole normali di un’economia che dopo una lunga crisi torna a crescere. La seconda parola, però, è “sospetto”: come è possibile che in una fase di ripresa l’occupazione sia aumentata più della produzione (ovvero che la produttività sia ancora diminuita)?

Partiamo, infatti, dalla lunga fase recessiva iniziata nel 2008 e terminata (speriamo) nel 2013; in quegli anni la caduta della produzione è stata superiore a quella dell’occupazione, confermando che quando la produzione diminuisce il lavoro non si riduce nella stessa misura: il pizzicagnolo continua a tenere aperta la bottega anche se le vendite dimezzano; magari tiene il commesso solo per metà giornata. Quando, però, le vendite tornano a crescere verosimilmente lo riprenderà a tempo pieno.
Quindi, ciò che ci aspettiamo nelle prime fasi di ripresa è che l’occupazione non cresca o, comunque, cresca meno della produzione e che le ore lavorate aumentino più degli occupati (perché si reintegrano i lavoratori a cui si era ridotto l’orario). Ed in effetti in questi ultimi trimestri le ore di lavoro sono aumentate più degli occupati, i quali però sono aumentati più della produzione; come dire che la produttività del lavoro è diminuita anche in questa fase di ritorno alla crescita.

Di qui il sospetto.
Non è successo così negli altri paesi europei, confermando quanto sta accadendo da tempo; è, infatti, dalla fine del secolo scorso che la produttività per addetto in Italia cala (di oltre l’1% tra il 2000 ed il 2007 mentre nello stesso periodo era aumentata dell’8% in Francia e del 10% in Germania).
Quindi, se andiamo con lo sguardo oltre questi ultimi anni scopriamo che quello che sta accadendo in questi mesi non è troppo diverso da quello che era accaduto a partire dalla fine del secolo scorso; vi è, cioè, un sentiero di fondo in cui si è da tempo inoltrato il nostro paese e su cui continuiamo a muoverci, un sentiero che -è bene ricordarlo- molti chiamavano con preoccupazione di lento declino.

La riflessione, quindi, non può limitarsi alla recente congiuntura pensando che ciò che accadde oggi nel mondo del lavoro sia un fatto nuovo, merito (per taluni) del Jobs act, dovremmo piuttosto riflettere su quelle che sono le basi della competitività del Paese.
A me pare che la verità sottostante sia che il Paese – non più in grado come in passato di coprirsi con la svalutazione della moneta – abbia da tempo scelto di puntare sulla svalutazione del lavoro.
È evidente che, se il modello è questo, ogni intervento che tenda a rendere più flessibile il mercato del lavoro può anche contribuire ad aumentare l’occupazione (e questo è non è un male visti gli alti livelli di disoccupazione) ma ne abbassa la remunerazione (e ne peggiora le condizioni): i livelli salariali del paese si sono, infatti, inesorabilmente allontanati da quelli degli altri paesi europei.
In tal senso il Jobs Act si inserisce nel filone delle passate leggi sul mercato del lavoro (Treu nel 1997 e Biagi nel 2003) promosse nell’ipotesi che fossero le rigidità del mercato del lavoro a bloccare il paese.
Non che non vi fosse in questo qualche verità, ma in tal modo abbiamo trascurato l’altro fattore produttivo – il capitale – il cui comportamento è ben più decisivo nel disegnare le sorti dell’economia e quelle del lavoro; non a caso il sistema si chiama capitalistico: è il capitale che decide dove deve andare il lavoro e quanto crearne.
Ciò che vorrei sottolineare è che la crisi, diversamente da quanto spesso si sostiene, non ha creato una discontinuità col passato, semmai ha indebolito il nostro sistema produttivo che ha però ripreso i comportamenti precedenti, assecondato in questo dalle politiche.
Gli investimenti sono quindi decisivi, con essi infatti si rinnova e, talvolta, si incrementa lo stock di capitale: nella misura in cui si rinnova, introducendo nuovi macchinari al posto dei vecchi, può capitare che ciò avvenga a scapito del lavoro (gli investimenti sono spesso labour saving); nella misura in cui invece si incrementa, si creano nuove occasioni di lavoro perché si allarga la capacità produttiva del sistema.

Quindi è evidente che se si vogliono effetti significativi sull’occupazione e sui livelli retributivi è necessario un rilancio degli investimenti assai più vigoroso di quello che osserviamo in questi giorni.
Per questo l’intervento pubblico è importante sia sul fronte del sostegno agli investimenti privati che del rilancio di quelli pubblici. Sul primo fronte, se riteniamo importante che gli investimenti non siano solo sostituzione di vecchi impianti, ma servano ad allargare la capacità produttiva (e quindi l’occupazione), occorre che gli incentivi vadano a favore di chi investe e, simultaneamente, assume. Non che quelli a favore dei soli investimenti non siano importanti, ma i secondi lo sono si più.
Ed è importante il settore in cui si investe. Se ancora una volta la crescita del paese è ancorata ad un modello export-led bisogna che gli investimenti rafforzino la capacità di esportare: non è un buon segno che negli anni che hanno preceduto la crisi il settore in cui si sia investito meno sia stato quello manifatturiero.

Gli investimenti pubblici sono invece di per sé espansivi dell’occupazione già nella fase della realizzazione. A regime, e quindi nel lungo periodo, se indirizzati a rafforzare la competitività del paese (ma anche a prevenire i danni che il dissesto idrogeologico, associato ai cambiamenti climatici, sta generando) avrebbero effetti postivi sulla crescita e sulla occupazione.
Lo sforzo sugli investimenti è quindi talmente decisivo per creare lavoro da non lasciarli al solo mercato; ricordiamo che al di là del dato sull’occupazione troppo spesso commentato (il milione di posti di lavoro creati!) abbiamo ancora quasi 3 milioni di disoccupati, un livello cioè mai raggiunto nella nostra storia recente e, quindi, tale da essere giudicato allarmante.

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