Ferve il dibattito sul come intervenire sulle banche italiane.
Il tema oggi non è più SE intervenire con fondi pubblici o para pubblici ma COME intervenire. Ne sono convinti i politici italiani ed anche, su scala europea, l’ipotesi si sta facendo ampia strada.
Si discute, infatti, su come interpretare la direttiva che introduce il meccanismo di risoluzione delle banche in crisi e il “bail–in” e su quali azioni da attuare dopo i risultati dell’esercizio di stress test che verranno resi noti alla fine di questo mese dall’Agenzia bancaria europea (EBA) .
Nessuno lo dice, ma la salute delle banche italiane è migliore di quanto risulta dai loro bilanci. Vediamo il perché, iniziando dai crediti deteriorati o “non performing loans” (NPL) di cui tanti parlano, non sempre con cognizione di causa; i NPL nostrani sono molto elevati anche perché le regole italiane di classificazione sono molto più rigorose di quelle vigenti in altri paesi europei.
Si tratta come noto di 200 miliardi di sofferenze lorde (cioè di crediti verso clienti decotti e quindi dal recupero difficile) e di 170 altri NPL (crediti verso clienti in difficoltà temporanea) sempre lordi. Al netto delle svalutazioni già effettuate, si riducono a 83 miliardi per le sofferenze (salvo altre svalutazioni con le semestrali appena chiuse) e altri 120 miliardi netti di crediti con probabilità di recupero più ampie.
Tra questa seconda categoria di NPL meno rischiosi, ad esempio, in Italia vengono compresi i “crediti ristrutturati” che in altri paesi sono considerati crediti buoni.
Non è nota la situazione ad oggi, ma nel 2011 il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, affermò che, se le banche italiane applicassero i criteri di altre banche europee, i loro NPL si ridurrebbero di circa 1/3. Non è poco.
Con un terzo di NPL in meno (da noi segnalati tali solo per regole eccessivamente rigorose) la situazione si avvicinerebbe a quella media e forse avrebbe ragione il ministro delle Finanze olandese, Jeroen Dijsselbloem, Presidente dell’Eurogruppo, quando afferma che la situazione delle banche italiane non è particolarmente grave.
Lo può però diventare se si continua a gettare discredito in modo dissennato, generando nei risparmiatori paure e crisi di sfiducia. Le banche vendono sopratutto fiducia e, come è noto alle persone responsabili, la perdita di fiducia è in grado di abbattere la banca più solida al mondo.
Aggiungo che le norme italiane prevedono l’obbligo per tutte le banche di applicare i principi contabili internazionali (IAS) a partire dal 1° gennaio 2005. Non è così in tutti gli Stati europei, alcuni dei quali non li applicano, ad esempio, per le banche piccole. Un Testo unico bancario europeo che superi le diverse normative nazionali esistenti – quella italiana è la più rigorosa – metterebbe le nostre aziende di credito sullo stesso piano delle altre, rendendo i confronti più omogenei e meno sfavorevoli.
Un altro punto importante è dato dalla diversa valutazione dei rischi derivanti dalle attività finanziarie rispetto al rischio di credito.
Danielle Nouy, Capo della Vigilanza europea (SSM), ha riconosciuto che non sono stati compiutamente valutati i rischi dei “derivati” data la difficoltà per i funzionari del SSM – nato appena 18 mesi fa – di entrare rapidamente nei complessi modelli di valutazione utilizzati dalle banche per dare un valore a tali strumenti finanziari. Un approccio più equilibrato nella valutazione dei rischi dei derivati andrebbe a favore delle banche italiane, i cui attivi sono formati in larghissima parte da crediti commerciali, liquidità e titoli di Stato.
Va ancora detto che in altri paesi finanziariamente più evoluti (gli USA in particolare) il rischio di credito é suddiviso tra banche, società finanziarie ed investitori privati. È sviluppato molto più che da noi il mercato delle “cartolarizzazioni” (i crediti, buoni e cattivi, trasformati in obbligazioni, vengono venduti a pezzetti, cioè come obbligazioni, a investitori istituzionali e privati, che ci guadagnano su dal loro recupero). In Italia, invece, questa categoria di rischio è tutta o quasi nei bilanci delle banche.
Tornando alla questione principale – cioè che, pur considerato quanto sopra, le nostre banche hanno più rischi di credito della media europea – non vi è dubbio che c’entra molto il fatto che l’Italia non cresce da 20 anni e che ha patito più profondamente la crisi. Vi ha contribuito il sistema della giustizia civile lento e farragginoso nel gestire il recupero dei crediti e dai fallimenti, ma non si può comunque sottacere la cattiva gestione della governance bancaria nel favorire gli interessi della classe dirigente, e/o “dei poteri forti” nazionali e locali.
Casi eclatanti sono sotto gli occhi di tutti. Emerge chiaramente che spesso la governance delle banche ha operato in maniera distorta a favore del sistema di potere che le controlla o ne influenza l’azione.
Vanno salvate le banche e non i banchieri. Le banche sono essenziali al finanziamento delle famiglie e dell’economia, certi banchieri no. Vanno garantiti i depositanti (tutti) ma non gli azionisti. Non vanno salvati i bonus della dirigenza e neanche i privilegi e il potere della governance.
Diversi banchieri, in Italia hanno svolto male il loro mestiere; non solo per colpa o per incapacità; spesso per aver ceduto a inevitabili condizionamenti. Non importa il motivo degli insuccessi, ma il salvataggio, a spese dei contribuenti che non hanno scelto di investire in azioni o obbligazioni bancarie, deve passare per un ricambio della governance e del management che non ha funzionato. Come detto in altre occasioni, la ristrutturazione del sistema bancario non può essere affidata alla classe dirigente che ha causato i problemi.
L’intervento pubblico, infine, deve essere davvero “una tantum” e solo per superare l’impatto repentino delle recenti norme sul “bail-in” – sulle quali è pure mancata una adeguata informazione preventiva al pubblico – e di una regolamentazione introdotta senza gradualità. Ma deve essere chiaro che le crisi future si affronteranno senza sconti.
Così non fosse continueremmo ad alimentare il “moral hazard” delle banche più grandi: troppo grandi per fallire senza travolgere l’intero sistema economico. La stagione dei salvataggi pubblici va chiusa applicando per il futuro le regole del “bail-in“.
Come intervenire? Qui andrebbe seguita la linea tracciata dagli interventi del Tesoro Usa per contrastare la crisi del 2008: sottoscrivere nuovo capitale bancario in modo diretto ma temporaneo. Con il che sono stati favoriti i risparmiatori – obbligazionisti diluendo il peso degli azionisti, vietando la distribuzione di utili agli azionisti e di bonus alla dirigenza durante il periodo di presenza del Governo nell’azionariato. In proposito, il governo USA nota di aver ottenuto un rendimento di quasi l’8% a conclusione di dette operazioni, rivendendo le azioni a crisi superata.
Negli USA il management è stato rinnovato e il Tesoro è uscito dalle banche appena possibile.
Ma siamo in Italia e molti si chiederanno: visti i precedenti, il nostro sistema politico potrà/vorrà liberarsi dei banchieri amici o sarà allettato dall’idea di controllare direttamente il sistema bancario? Le dichiarazioni governative di questi giorni, si muovono verso il mantenimento dello “status quo”, privilegiando soluzioni “di mercato” e con limitati impiego di fondi pubblici. Vi pesano certamente la situazione dei conti pubblici e la difficoltà di superare completamente le regole comuni sulle crisi bancarie. Tra qualche giorno vedremo come sarà andata.