Rosa Fioravante

Ricominciamo dall’Articolo 1, ma soprattutto dall’Articolo 3

Quando si tratta di Costituzione e padri costituenti non si fa mai torto ricordando con forza il contributo di Lelio Basso, in particolare all’articolo 3:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

È questo l’articolo che forse più di ogni altro parla di un mondo e di un Paese che i giovani oggi sanno non esistere. Infatti, se la prima parte afferma un principio di eguaglianza da tutti formalmente venerato e rispettato e se la sensibilità dell’opinione pubblica ha certamente fatto dei passi avanti negli anni, grazie a campagne contro la discriminazione razziale, di preferenza sessuale e genere ecc. la seconda parte rimane largamente inattuata. Lo stesso Lelio Basso che ha fatto inserire il secondo capoverso lo indicherà come dispositivo in grado di rendere la prima parte effettuale e non solo formale. Nonostante l’approvazione negli ultimi anni di leggi importantissime come le unioni civili e il reato di stalking (che riguarda vittime per lo più femminili), la sostanziale parità nella società rimane un miraggio e, ancor di più, un’idea che sempre più spesso sembra inattuabile più che inattuale. Qualche decennio di egemonia culturale della visione del mondo che afferma l’inesistenza di alternativa alle politiche di privatizzazione neoliberiste e ad una società basata sulla competizione sfrenata di tanti individui posti in una guerra continua di tutti contro tutti, ci hanno consegnato un sistema economico e politico incapace di ottemperare al compito che la nostra Costituzione assegna alla Repubblica: quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale. Di più, un numero sempre più consistente di persone è convinta che questo non sia possibile.

Questo tipo di ideologia si può declinare in molti modi, ma la nostra generazione ne conosce in particolare due facce: la prima è l’idea di meritocrazia, quella “dell’Italia che ce la fa”, per la quale poche isolate scuole e università di eccellenza formano individui meritevoli mentre i molti vengono marginalizzati. Questo è solo uno dei molti aspetti delle diseguaglianze crescenti nel mondo Occidentale e non solo, ma certamente uno dei più feroci poiché non tiene conto delle diverse condizioni nelle quali nascono e crescono le persone, delle diverse situazioni familiari e della sostanziale differenza di trattamento che ancora esiste fra coloro che provengono da famiglie agiate e ben inserite e coloro che non hanno questo privilegio. La stessa idea di un sistema di educazione e istruzione pubblico universale avrebbe dovuto ottemperare alla missione di mettere ciascuno in condizione di apprendere, imparare e successivamente realizzarsi, mentre oggi siamo di fronte ad un sistema sempre più diviso fra coloro che hanno accesso ad ogni sapere ed opportunità – avendo anche la possibilità di vivere e formarsi in ambiente cosmopolita capace di competere nel mondo globalizzato – e coloro che ne rimangono esclusi, ancorati ad un territorio impoverito dalle politiche neoliberiste, costretti a lavori per lo più dequalificati nei quali permane ancora la differenza di salario fra uomo e donna e nel cui mondo l’abolizione delle tutele consente ai datori di lavoro di espellere qualcuno per le proprie opinioni politiche o preferenze sessuali, credo religiosi ecc. “Meritocrazia” è stato un escamotage lessicale per far passare l’idea che ci si possa salvare da soli ma senza che siano garantiti i mezzi per farlo. La seconda è l’apatia politica che sembra pervadere una generazione che si vuole far credere sia persa alla politica, ma che in realtà semplicemente comprende e sente in modo quasi istintuale che non vi è una proposta politica all’altezza del tentativo di risolvere i problemi che la attanagliano. Una generazione che sembra non essere riguardata dal tentativo di ottemperare a “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, innanzitutto in quanto generazione di disoccupati e precari assai più che “lavoratori”, o generazione che cerca la propria realizzazione necessariamente fuori da lavori non dignitosi e non inerenti alle proprie passioni ed interessi.

Tuttavia, se è vero che per le caratteristiche del mondo del lavoro e della società contemporanea è per lo più una generazione di “inorganizzabili” non è del tutto vero che sia anche inerme difronte ai rivolgimenti storici. Infatti, le esperienze di Sanders negli Usa, di Corbyn in Inghilterra, di Podemos in Spagna e di Mélenchon in Francia che hanno riscosso enorme successo fra i cosiddetti “millennials” e ne hanno avvicinata al voto una parte consistente, testimoniano che esiste una questione giovanile in politica che si incrocia con la questione dell’alternativa di sistema. Interrogati su cosa ne pensassero della parola “socialismo”, i giovani USA durante la campagna delle primarie 2016, rispondevano a larga maggioranza che o non ne avevano un’opinione in particolare o ne avevano opinione sostanzialmente positiva, tale è la percezione di vivere in un sistema iniquo – nel quale il pubblico non riesce più ad eliminare gli ostacoli che riguardano un numero sempre più crescente di soggetti – da rendere la maggioranza dei giovani disposto anche a provarne uno differente. Questo affresco della situazione statunitense ci restituisce un desiderio di cambiamento e di rivendicazione di sistemi che in quel territorio non sono mai stati attuati, mentre in Europa lo Stato Sociale è esistito e la sua assenza si avverte quindi oggi con ancora maggiore forza.

Pertanto bisogna munirsi di mezzi nuovi ma senza nuovismi: in primis, strumenti ideologici, proprio come le esperienze citate hanno suggerito, in secondo luogo di un mix di assetti partecipativi che sappia contemperare tradizione e innovazione. Ad esempio, sul primo versante, la cancellazione del finanziamento pubblico ai partiti va nella direzione di incrementare, e non diminuire come sarebbe necessario, l’enorme divario fra un ceto politico che si autoriproduce cooptando a sé ragazzi e ragazze che in tutto gli somigliano e che hanno la possibilità di partecipare ai dibattiti politici in quanto provenienti da famiglie abbienti, e coloro che invece appartengono a quegli strati popolari di una società che ribolle senza possibilità di incanalare rabbia, istanze, domande nel processo democratico a causa di mancanza di tempo e risorse.

Se la politica non torna ad essere il primo campo nel quale tutti sono in condizione di partecipare a prescindere dalla provenienza, difficilmente si andrà oltre la deriva grillina di credere che basti qualche click su un blog per trasformare il cittadino qualunque in rappresentante nelle istituzioni. A proposito di innovazione, tutte le esperienze sopra citate, persino quella che deriva da un soggetto politico così tradizionale come il Labour britannico, ci insegnano che la visione deve pre-esistere al radicamento: se si vogliono far convergere le lotte del lavoro tradizionale con una generazione di “inorganizzabili” è necessaria una spinta di carattere nazionale e dei messaggi chiari rispetto a chi si vuole rappresentare e contro quali interessi si vuole farlo, così che si possano cogliere tante individualità nella società atomizzata contemporanea senza sperare nella improbabile, seppur auspicabile, ricostruzione di partiti di massa. È nel momento dell’attivazione di queste individualità al messaggio di giustizia sociale che esse entrano in rapporto fra loro e costruiscono rete, soggetto collettivo, persino intellettualità comuni; è successo con Our Revolution negli Stati Uniti – paese dell’individualismo per eccellenza – e con Momentum in Inghilterra. Bisogna trovare modi per far partecipare alla vita pubblica anche i non-ancora-lavoratori affinché questi possano a gran voce chiedere il diritto al lavoro dignitoso, retribuito con equità, corrispondente ai desideri di realizzazione di ciascuno, del quale vivere per liberarsi dal bisogno.

Non è questa una richiesta visionaria: la nostra Costituzione già afferma questo diritto e, nell’articolo 3, indica anche le linee guida affinché tutti possano accedere al suo godimento. La sovranità popolare richiamata da Pablo Iglesias nel suo comizio a Parigi in sostegno di Mélenchon non è altro che questo: la facoltà di un popolo di riconoscere allo Stato il ruolo di agente di perequazione delle diseguaglianze naturali, per le quali coloro che nascono più in difficoltà dovranno ricevere maggiore aiuto, come nel motto nenniano “socialismo è portare avanti tutti coloro che sono nati indietro”, e le diseguaglianze economico-sociali implementate da un sistema intrinsecamente ingiusto che solo il potere pubblico democraticamente amministrato in favore dei più e non delle élites può contrastare. In questo senso, l’articolo 3 contiene in sé anche i germi del contrasto all’antipolitica: lo Stato deve mettere tutti in condizione di realizzarsi e partecipare alla cosa pubblica e, viceversa, tutti possono avere l’opportunità di chiedere che questo principio sia non solo enunciato come buon proposito ma affermato dall’azione politica dei propri rappresentanti a questo scopo eletti.

I tanti coetanei che ho incontrato in tutta Italia da Brescia fino a Cosenza passando per il centro, negli eventi di campagna referendaria per l’appuntamento del 4 Dicembre 2016, sembravano chiedere nient’altro che questo: che la classe dirigente tornasse a discutere di come rimuovere gli ostacoli che sembrano impedire la realizzazione di un avvenire dignitoso invece che discutere di un “taglio di poltrone” come la campagna governativa sembrava suggerire: tutte le poltrone sono inutili se non rispondono ad un progetto di Paese e di futuro, tutte le poltrone sono utili se lo fanno. Allo stesso modo, si esce dall’astensione solo se si ha l’impressione di una concreta battaglia per incidere negli equilibri di potere e nelle decisioni pubbliche, non se la scelta si presenta come un unico indistinto Leitmotiv di una medesima opzione. Per questo il “NO” espresso dai giovani a larghissima maggioranza non va interpretato come un voto meramente di protesta ma come un desiderio di qualcosa di più e qualcosa di meglio. In questo senso è significativo rievocare le parole dell’estensore dell’articolo 3 che pronunciò a Milano nel 1948 al Teatro Nuovo nel suo discorso Uomini nuovi nella società nuova che sorge:

“Ecco qual è la posizione che noi possiamo assumere verso questa gioventù; mostrare ad essa che la sua condizione materiale è in funzione della contraddizione insita nella presente società, e che questa condizione materiale non si risolve, se non si risolvono tutte le contraddizioni ché presenta la società, mostrare ad essa che la sua condizione spirituale è pur essa in funzione della contraddizione morale in cui si dibatte la vecchia classe dirigente, e che soltanto nella misura in cui andremo creando una società nuova, noi riusciremo ad esprimere ideali nuovi, degli ideali per i quali valga la pena di battersi e che abbiano la possibilità di suscitare nuove fiammate di entusiasmo. E per concludere questa parte vorrei dire che la condanna di questa società, sul piano morale e spirituale, è proprio l’apatia, lo scetticismo di una parte della gioventù del popolo italiano, è proprio la sua incapacità ad esprimere, essa società, questa guida ideale. Dobbiamo perciò assumere noi, o per dir meglio dovete assumere voi, giovani, avanguardie della democrazia, questo compito di guida della vostra generazione verso dei nuovi ideali”. Lelio Basso

Gli ideali di giustizia, uguaglianza, solidarietà e libertà che dovranno guidare l’idea di Paese che proporremo forse non sono così nuovi, ma certamente l’idea che il patto sociale alla base della nostra Costituzione sia sorpassato e che la sua attuazione venga dopo l’ottemperanza ad assurdi vincoli economici che aumentano le sofferenze umane e umiliano le giovani generazioni, senza dubbio è assai vecchia; è un’ipotesi sconfitta dalla grande crisi economica del 2008 che pagano le classi medie e i più giovani e sconfitta dalla mancanza di crescita, sviluppo e benessere ogni volta che le sue ricette vengono applicate. Proprio come hanno fatto in tanti prima di noi in passato, saremo in prima linea per combatterla: contro quell’idea, per tutti quelli di cui parla l’articolo 3 ma, ancora di più, con tutti loro.

Nella foto di copertina: Rosa Fioravante

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