Investimenti pubblici

Ridurre le tasse o rilanciare gli investimenti pubblici?

L’idea di Renzi di ritornare a Maastricht, fissando una soglia al deficit pubblico attorno al 2,9% contiene tutta una serie di ipotesi che è bene esplicitare.
Non vi è dubbio che l’obbligo del pareggio di bilancio costringa il paese ad una politica di austerity che non è conciliabile con la crescita; dovremmo vivere in una fase di eccezionale dinamismo del commercio mondiale perché ciò possa avvenire. Ma è evidente che non siamo in questa fase.
Quindi è giusto, come fa Renzi, richiamare l’esigenza di un ritorno al deficit spending. Ma per fare cosa? Renzi dice per abbassare le tasse; mi chiedo se sia davvero questa l’esigenza del paese.

Per rispondere occorre riflettere sui lasciti di questa a lunga crisi.
In questi anni si è fortemente ridimensionata la capacità produttiva e la competitività del paese. Le due cose non sono equivalenti. Quando si dice che si è ridotta la capacità produttiva si intende dire che il sistema produttivo si è ristretto, perché molte imprese hanno chiuso e altre si sono strutturalmente posizionate su livelli produttivi più bassi: ne hanno fatto le spese, ovviamente, gli imprenditori coinvolti e soprattutto i lavoratori, talvolta perdendo il posto di lavoro, altre volte vedendosi ridotto l’orario di lavoro.
Quando, invece, si dice che si è persa competitività il riferimento è di tipo qualitativo: se non si sono rinnovati gli impianti, se non si sono assunti lavoratori più giovani, in un contesto dove altri lo hanno fatto, si è evidentemente meno competitivi.
A questo si deve aggiungere che, essendo la competitività un fatto di sistema, essa richiede che anche le infrastrutture siano adeguate. Ricordiamo che già prima della crisi molti rilevavano un grave ritardo infrastrutturale del paese, oggi evidentemente peggiorato per il crollo di investimenti pubblici di questi anni.
Detto in poche parole, dopo questa crisi è come se viaggiassimo su di un’automobile con un motore di vecchia concezione e per di più anche ridimensionato, costretta a correre sulle vecchie strade diventate ancor più accidentate.

Se queste sono le premesse è del tutto evidente che un rilancio duraturo della crescita è possibile solo con nuovi investimenti.
Nuovi investimenti da parte delle imprese significa:
che le imprese esistenti decidano di acquistare nuovi impianti;
che nuove imprese decidano di avviare nuove attività.
Come è possibile che questo possa accadere?
In linea generale si ritiene che nuovi investimenti (nelle due direzioni sopra indicate) possano avvenire se le imprese intravvedono aspettative positive e se valutano vi sia una convenienza economica. Se questo non avviene spontaneamente – ed è questa la situazione attuale – occorre operare sui due fronti, stabilendo quale dei due sia prioritario.
Nelle proposte di Renzi si propende per l’ipotesi che si debbano ricostruire le condizioni di economicità riducendo i costi con una minore tassazione.
Il timore è che, se non si obbligano le imprese a procedere per tali vie, nulla garantisce che minori tasse portino a maggiori investimenti: in assenza di prospettive di crescita della domanda ciò potrebbe semplicemente tradursi in maggiori profitti.
Quindi, qualora si voglia procedere in tale direzione, sarebbe bene condizionare la riduzione di tasse all’impegno verso nuovi investimenti e nuove assunzioni. Non sarebbe male premiare in modo particolare chi fa entrambe le cose, per evitare che i nuovi investimenti servano solo a sostituire i macchinari esistenti, talvolta sostenendo una decisione già presa.

Ma sulla redditività delle imprese, forse più delle tasse, contano le infrastrutture, specie dopo anni che non si è provveduto a migliorarle: è possibile che sia anche per questi motivi che nuove imprese non sono attratte a localizzarsi nel paese e le vecchie abbiano difficoltà a competere. In altre parole, il problema non sono (o non sono solo) i costi, ma l’accessibilità a servizi efficienti e moderni, cui bisogna far fronte con un serio rilancio degli investimenti pubblici.
Vi sono aree del paese che ancora dispongono di imprese in grado di competere con successo con le imprese di altri paesi e che rischiano di perdere questa forza semplicemente perché vivono in un ambiente sempre più difficile per l’inadeguatezza di alcune fondamentali infrastrutture.

Ma il rilancio degli investimenti pubblici servirebbe anche a creare le condizioni per il secondo fattore della spinta ad investire, creando cioè aspettative di crescita della domanda finale.
Gli investimenti pubblici hanno infatti il pregio di avere un elevato moltiplicatore per cui creerebbero una spinta considerevole e continuativa alla domanda interna. La riduzione delle tasse qualora si traducesse semplicemente in aumento dei redditi potrebbe avere, come nel caso degli 80 euro o dell’abolizione dell’IMU, un effetto assai modesto sulla crescita. Vale infatti la pena di ricordare che per ogni 100 euro di sostegno ai redditi e, di conseguenza, ai consumi il moltiplicatore del PIL non supera gli 80 euro, mentre nel caso di investimenti pubblici sarebbe assai più elevato.

Se tutto questo è vero, puntare su di un ritorno a Maastricht solo per ridurre le tasse sarebbe assai meno efficace di un’azione politica verso la golden rule volta a lasciare fuori dal pareggio di bilancio gli investimenti pubblici, fissandone ovviamente un limite e, soprattutto, mettendo in atto procedure affinché possano realizzarsi rapidamente (qui le riforme sarebbero indispensabili). Se di riduzione delle tasse si deve parlare allora è fondamentale legarla ad un impegno effettivo verso nuovi investimenti e l’impegno è assai più credibile se ai nuovi investimenti sono associate anche nuove assunzioni.

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