Sconfitto al voto del 4 marzo, il Pd si è arroccato all’opposizione, smarrendosi nei braccio di ferro interni. E, forse, sperando in San Mattarella. Il colpo subito è in effetti da ko. Il 25% era l’asticella non di un successo ma di uno scongiurato fallimento. Ma il Pd non ha raggiunto neppure la “generosa” soglia indicata da Gian Enrico Rusconi alla vigilia del voto: “Scendere sotto il 20% sarà la fine della sinistra”. Il Pd si è attestato sotto il 19% dei votanti alla Camera (13% degli aventi diritto). Fine della sinistra, anche di quella di governo, “riformista” e ridisegnata come “centrosinistra”? È tutta colpa di Renzi e dei suoi, e degli “sciagurati” di Liberi e Uguali? No. Non è stato il 4 marzo a segnar la fine anche di questa sinistra; non è solo sulle spalle di Renzi & Co. la responsabilità di questa fine. La “sinistra” non è in partita da tempo. Diciamolo: non lo era neanche quando il Pd vinceva elezioni e guidava governi. Se di sinistra vogliamo parlare, la sua fine arriva da lontano. All’appassimento del Pd e di quel che di sinistra ha traversato l’Italia del secondo ‘900, Renzi ha solo dato il colpo di grazia, riposizionando il partito su posizioni ideologiche, di policy e rappresentanza di interessi e valori mai così distanti dalla tradizione socialdemocratica e anche dal popolarismo cattolico.
Le radici di quanto accade oggi al Pd (e in generale un po’ in tutta Europa ai partiti della sinistra di governo o di centrosinistra) sono profonde. Risalgono alla fine del “compromesso socialdemocratico”, agli anni ’80, quando i partiti di ispirazione socialista piegano le loro identità e i lori indirizzi politici all’onda neoliberale, al capitalismo finanziario, per arrivare al governo. Il patto socialdemocratico si squaglia, la sinistra di governo finisce per farsi interprete disciplinata dell’egemonia neoliberale: cambiano i rapporti di “potere strutturale” tra destra e sinistra, si assiste a una mutazione genetica dei partiti della tradizione di sinistra.
Il compromesso socialdemocratico si era saldato dopo la lunga età liberale. Nel corso della prima metà del ‘900 un mondo salta per aria: due guerre mondiali lasciano sul campo democrazie sbiadite o travolte da regimi totalitari e autoritari, effervescenze rivoluzionarie, Stati spezzettati con confini di carta o di fucile, Stati in bancarotta, mescolati a tracolli finanziari, miseria e disoccupazione, migrazioni forzate, epidemie, smarrimenti e rabbie. Alla fine della seconda guerra mondiale, c’era un intero mondo da ripensare e riorganizzare, le idee e la cultura politica liberali divelte dall’ingresso delle masse in politica, da rivendicazioni di benessere e diritti intestati a lavoratori.
Già prima, il primato del mercato che si autoregola, cardine della produzione e distribuzione, è scosso dal crollo di Wall Street (1929): l’iperinflazione inginocchia società e azione dei governi. L’uscita dalla crisi spinge per un’economia che incontri la politica e la morale. Keynes diventa l’alfiere liberale di un’economia post-liberista, che apra a una centralizzazione e pianificazione dell’economia, all’intervento dello Stato. Negli anni ’30 e ancor più nel secondo dopoguerra, l’economia delle società capitalistiche è rimodellata: New Deal, ”economia mista” pubblica-privata ed ”economia sociale di mercato” contribuiscono a trasformare lo Stato democratico liberale in Stato democratico sociale. Al welfare state moderno delineato dal liberale Beveridge si affianca un modo diverso di concepire assistenza e tutele sociali: non più strumenti paternalistici e caritatevoli ma, sosteneva il sociologo socialdemocratico Marshall, strumenti di cittadinanza democratica, diritti sociali (sanità, istruzione, sicurezza sociale, pensione) che completano i diritti di libertà e partecipazione politica. Più eguaglianza e più diritti nella libertà, più giustizia e più “cultura della cittadinanza” nel capitalismo: questa l’ardita scommessa del compromesso socialdemocratico. Gli ideali di eguaglianza sociale e di emancipazione politica che si sposano con i bisogni dei ceti periferici, storicamente rappresentati dai partiti di sinistra, trovano accoglienza in ampi settori delle classi dirigenti, dei partiti liberal-conservatori e popolari. E’ una sorta di “patto di riconoscimento reciproco” tra gli interessi del “capitale”, dei ceti benestanti e dei loro valori, rappresentati dalle tradizionali forze di governo dell’epoca, da un lato, e gli interessi del “lavoro”, delle classi più deboli e dei loro valori, rappresentati dalle sinistre e dal popolarismo cristiano, dall’altro. Ma è una storia che non dura molto.
Il tramonto del consenso socialdemocratico, del compromesso liberal-socialista, inizia già alla fine degli anni ‘70. Tensioni geoeconomiche e conflitti internazionali portano a due acute crisi petrolifere (1973 e 1979): in Europa arrivano stagnazione economica, inflazione e disoccupazione. Seguono “razionalizzazioni” del sistema produttivo che veicolano dispersione delle grandi fabbriche, concentrazioni finanziarie, delocalizzazioni del lavoro e disoccupazione, riduzioni di spesa e diritti sociali. E’ la “rivoluzione neoliberale”: protagonisti politici Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli USA, poi l’Unione Europea di Maastricht, l’allineamento dei partiti della famiglia socialista (Spd in Germania, Laburisti in Gran Bretagna, socialisti in Francia, Spagna; in Italia socialisti e post-comunisti).
In Italia, gli anni del compromesso socialdemocratico avevano visto crescere i consensi al Pci: dai 6 milioni di voti nel 1953 ai quasi 13 nel 1973, ma ancora 11 milioni a inizio anni ’80. Negli anni ’90, in piena stagione neo-liberista, come partito post-comunista di governo e impegnato in politiche “pro-sistema”, il Pds oscilla tra 6 e 8 milioni di voti. Nel 2006 e 2008 l’Ulivo-Pd, mettendo insieme post-comunisti (Ds) e post-democristiani (Margherita), raggiunge i voti del solo Pci degli anni ’70. Nel 2013 il Pd si ferma a 8,5 milioni di voti; nel 2018 scende a 6 milioni circa: quanto il minimo storico del Pci da solo (1953). Oggi il Pd ha perso 2,5 milioni di voti rispetto al tanto deprecato risultato del Pd di Bersani nel 2013 e 6 milioni di voti rispetto a dieci anni fa.
È a questa lunga storia che dobbiamo guardare per capire la fine della sinistra e interrogarci sul suo futuro. Non solo al 4 marzo, non solo ai Renzi dell’ultima ora. Sempre che si voglia ancora restituire dignità alla distinzione tra sinistra e destra, oggi sopraffatta da quella tra politica pro-sistema e politica anti-sistema. Ma a molti forse sfugge questa storia, e il significato della distinzione politica pro- e anti-sistema nelle nostre postdemocrazie.
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Gaspare Nevola insegna Scienza politica al Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento, dove è responsabile del Centro di Ricerca VADem (Valori, Appartenenze e Democrazia). E’ editorialista dell’Alto Adige e del Trentino, su cui il presente contributo è già stato pubblicato.
Sinistra: sconfitta che vien da lontano
Sconfitto al voto del 4 marzo, il Pd si è arroccato all’opposizione, smarrendosi nei braccio di ferro interni. E, forse, sperando in San Mattarella. Il colpo subito è in effetti da ko. Il 25% era l’asticella non di un successo ma di uno scongiurato fallimento. Ma il Pd non ha raggiunto neppure la “generosa” soglia indicata da Gian Enrico Rusconi alla vigilia del voto: “Scendere sotto il 20% sarà la fine della sinistra”. Il Pd si è attestato sotto il 19% dei votanti alla Camera (13% degli aventi diritto). Fine della sinistra, anche di quella di governo, “riformista” e ridisegnata come “centrosinistra”? È tutta colpa di Renzi e dei suoi, e degli “sciagurati” di Liberi e Uguali? No. Non è stato il 4 marzo a segnar la fine anche di questa sinistra; non è solo sulle spalle di Renzi & Co. la responsabilità di questa fine. La “sinistra” non è in partita da tempo. Diciamolo: non lo era neanche quando il Pd vinceva elezioni e guidava governi. Se di sinistra vogliamo parlare, la sua fine arriva da lontano. All’appassimento del Pd e di quel che di sinistra ha traversato l’Italia del secondo ‘900, Renzi ha solo dato il colpo di grazia, riposizionando il partito su posizioni ideologiche, di policy e rappresentanza di interessi e valori mai così distanti dalla tradizione socialdemocratica e anche dal popolarismo cattolico.
Le radici di quanto accade oggi al Pd (e in generale un po’ in tutta Europa ai partiti della sinistra di governo o di centrosinistra) sono profonde. Risalgono alla fine del “compromesso socialdemocratico”, agli anni ’80, quando i partiti di ispirazione socialista piegano le loro identità e i lori indirizzi politici all’onda neoliberale, al capitalismo finanziario, per arrivare al governo. Il patto socialdemocratico si squaglia, la sinistra di governo finisce per farsi interprete disciplinata dell’egemonia neoliberale: cambiano i rapporti di “potere strutturale” tra destra e sinistra, si assiste a una mutazione genetica dei partiti della tradizione di sinistra.
Il compromesso socialdemocratico si era saldato dopo la lunga età liberale. Nel corso della prima metà del ‘900 un mondo salta per aria: due guerre mondiali lasciano sul campo democrazie sbiadite o travolte da regimi totalitari e autoritari, effervescenze rivoluzionarie, Stati spezzettati con confini di carta o di fucile, Stati in bancarotta, mescolati a tracolli finanziari, miseria e disoccupazione, migrazioni forzate, epidemie, smarrimenti e rabbie. Alla fine della seconda guerra mondiale, c’era un intero mondo da ripensare e riorganizzare, le idee e la cultura politica liberali divelte dall’ingresso delle masse in politica, da rivendicazioni di benessere e diritti intestati a lavoratori.
Già prima, il primato del mercato che si autoregola, cardine della produzione e distribuzione, è scosso dal crollo di Wall Street (1929): l’iperinflazione inginocchia società e azione dei governi. L’uscita dalla crisi spinge per un’economia che incontri la politica e la morale. Keynes diventa l’alfiere liberale di un’economia post-liberista, che apra a una centralizzazione e pianificazione dell’economia, all’intervento dello Stato. Negli anni ’30 e ancor più nel secondo dopoguerra, l’economia delle società capitalistiche è rimodellata: New Deal, ”economia mista” pubblica-privata ed ”economia sociale di mercato” contribuiscono a trasformare lo Stato democratico liberale in Stato democratico sociale. Al welfare state moderno delineato dal liberale Beveridge si affianca un modo diverso di concepire assistenza e tutele sociali: non più strumenti paternalistici e caritatevoli ma, sosteneva il sociologo socialdemocratico Marshall, strumenti di cittadinanza democratica, diritti sociali (sanità, istruzione, sicurezza sociale, pensione) che completano i diritti di libertà e partecipazione politica. Più eguaglianza e più diritti nella libertà, più giustizia e più “cultura della cittadinanza” nel capitalismo: questa l’ardita scommessa del compromesso socialdemocratico. Gli ideali di eguaglianza sociale e di emancipazione politica che si sposano con i bisogni dei ceti periferici, storicamente rappresentati dai partiti di sinistra, trovano accoglienza in ampi settori delle classi dirigenti, dei partiti liberal-conservatori e popolari. E’ una sorta di “patto di riconoscimento reciproco” tra gli interessi del “capitale”, dei ceti benestanti e dei loro valori, rappresentati dalle tradizionali forze di governo dell’epoca, da un lato, e gli interessi del “lavoro”, delle classi più deboli e dei loro valori, rappresentati dalle sinistre e dal popolarismo cristiano, dall’altro. Ma è una storia che non dura molto.
Il tramonto del consenso socialdemocratico, del compromesso liberal-socialista, inizia già alla fine degli anni ‘70. Tensioni geoeconomiche e conflitti internazionali portano a due acute crisi petrolifere (1973 e 1979): in Europa arrivano stagnazione economica, inflazione e disoccupazione. Seguono “razionalizzazioni” del sistema produttivo che veicolano dispersione delle grandi fabbriche, concentrazioni finanziarie, delocalizzazioni del lavoro e disoccupazione, riduzioni di spesa e diritti sociali. E’ la “rivoluzione neoliberale”: protagonisti politici Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli USA, poi l’Unione Europea di Maastricht, l’allineamento dei partiti della famiglia socialista (Spd in Germania, Laburisti in Gran Bretagna, socialisti in Francia, Spagna; in Italia socialisti e post-comunisti).
In Italia, gli anni del compromesso socialdemocratico avevano visto crescere i consensi al Pci: dai 6 milioni di voti nel 1953 ai quasi 13 nel 1973, ma ancora 11 milioni a inizio anni ’80. Negli anni ’90, in piena stagione neo-liberista, come partito post-comunista di governo e impegnato in politiche “pro-sistema”, il Pds oscilla tra 6 e 8 milioni di voti. Nel 2006 e 2008 l’Ulivo-Pd, mettendo insieme post-comunisti (Ds) e post-democristiani (Margherita), raggiunge i voti del solo Pci degli anni ’70. Nel 2013 il Pd si ferma a 8,5 milioni di voti; nel 2018 scende a 6 milioni circa: quanto il minimo storico del Pci da solo (1953). Oggi il Pd ha perso 2,5 milioni di voti rispetto al tanto deprecato risultato del Pd di Bersani nel 2013 e 6 milioni di voti rispetto a dieci anni fa.
È a questa lunga storia che dobbiamo guardare per capire la fine della sinistra e interrogarci sul suo futuro. Non solo al 4 marzo, non solo ai Renzi dell’ultima ora. Sempre che si voglia ancora restituire dignità alla distinzione tra sinistra e destra, oggi sopraffatta da quella tra politica pro-sistema e politica anti-sistema. Ma a molti forse sfugge questa storia, e il significato della distinzione politica pro- e anti-sistema nelle nostre postdemocrazie.
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Gaspare Nevola insegna Scienza politica al Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento, dove è responsabile del Centro di Ricerca VADem (Valori, Appartenenze e Democrazia). E’ editorialista dell’Alto Adige e del Trentino, su cui il presente contributo è già stato pubblicato.
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