Ho trovato per caso sul mio computer una vecchia foto di Giorgio Amendola e Pietro Ingrao. E’ una foto che ha suscitato in me un’onda di idee e di emozioni.
Non so né la data, né l’occasione in cui è stata scattata. Probabilmente, una festa nazionale dell’Unità o una manifestazione (i due hanno la coccarda con il simbolo del partito), magari dietro il palco del comizio. Amendola e Ingrao, in questa foto, sembrano cinquantenni: la foto, possiamo dedurre, risale agli anni Sessanta. I due stanno conversando: e possiamo solo provare a immaginare cosa si stessero dicendo. Dai volti e dalle espressioni possiamo pensare che Ingrao avesse raccontato ad Amendola un qualche episodio curioso o divertente, chissà, magari una chiacchiera di partito su qualcuno o qualcosa. Amendola sembra reagire dicendo quasi: “ma davvero, ma guarda un po’!”, con un filo di ironia. Dalla foto emerge una conversazione pacata, dai volti e dalle espressioni emerge l’infinita curiosità umana e intellettuale dei due personaggi.
E’ inutile negarlo: questa foto mi ha prodotto una grande nostalgia. Nostalgia per un grande partito (quale che sia oggi il giudizio storico sui suoi meriti e i suoi errori); nostalgia per un tempo in cui la politica viveva di una dimensione comunitaria, di idee e di dialogo; nostalgia per una civiltà della politica che oggi sembra smarrita. Ma mi ha anche prodotto un sentimento di riconoscenza e di gratitudine: dover ammettere con me stesso di essere stato fortunato, negli anni della mia giovinezza, ad incontrare questa politica. Ricordo ancora come, nel 1972, a 16 anni, il segretario della nostra federazione del Pci, che si intratteneva fino a notte fonda a discutere di politica con noi ragazzi, passeggiando su e giù per il corso del mio paese, mi avesse consigliato di leggere un testo di Amendola, un saggio sulla storia d’Italia e sul “ruolo nazionale” del movimento operaio, appena apparso su una rivista della “nuova sinistra” di allora, “Giovane critica”. Un saggio che dovrei ricercare, in qualche biblioteca…e che allora mi convinse in modo decisivo ad iscrivermi al Pci.
In genere, nel lessico politico odierno, dare del “nostalgico” a qualcuno significa biasimare il suo sguardo rivolto all’indietro, il suo attardarsi nel rimpianto di un tempo passato, il suo distacco dalle novità del presente.
Io vorrei qui, al contrario, rivendicare il valore politico, e il valore positivo, della nostalgia. La politica, la politica di chi si riconosce in un ideale di giustizia e democrazia, non può vivere spezzando il filo della memoria storica. Ma proprio la storia del Novecento, con i successi e le sconfitte che ha vissuto il movimento operaio (nelle sue due grandi correnti, quella socialdemocratica e quella comunista), ci consegna questo insegnamento: la sinistra ha concepito la propria azione dentro una peculiare “filosofia della storia”, mossa cioè dall’idea che il proprio compito fosse inscritto, come incastonato, nel movimento oggettivo della storia – una storia retta da una propria “logica” contraddittoria, su cui si trattava di far leva per dare un “senso” al futuro, per costruire questo futuro.
Oggi – da almeno un quarto di secolo – la storia ha imbrogliato e rimescolato le proprie carte: è difficile cogliere in quanto accade un “senso” univoco, una “direzione”. E, come ben sappiamo, molto semplicemente, il “nuovo” non è per nulla, né immediatamente, di per sé “migliore” del passato. Si è spezzata una lettura teleologica dei processi storici: viviamo in un presente storico che può essere concepito solo come un campo plurimo di tensioni e di conflitti, e il loro esito complessivo, il loro “sbocco”, non può essere prefigurato – solo gli storici del futuro potranno dirci se oggi stiamo vivendo una qualche “transizione”, anche se noi non sappiamo bene verso dove, e forse non lo sapremo mai. Ma se non c’è più un “senso” della storia, non per questo è venuto meno il bisogno di “dare un senso” a ciò che accade. Ed è qui che scatta la “nostalgia”, positivamente intesa: la nostalgia diviene un sentimento negativo, un senso di ripiegamento inerte sul passato, solo se si presuppone che il corso della storia contenga in sé il “progresso”. Ma se così non è, e sappiamo oramai che così non è, la nostalgia può essere intesa come memoria di momenti migliori, consapevolezza che un’altra politica è stata possibile, e che potrebbe essere ancora possibile. Se non c’è più un flusso univoco del cambiamento storico, che lascia dietro di sé solo macerie e rovine, allora anche la “nostalgia” può assumere un senso diverso: come memoria dei momenti “alti” del proprio passato (non poi così remoto, in fondo), come “modello” positivo a cui ispirarsi nelle mutate condizioni del presente.
Si pensi solo all’idea di partito: siamo proprio certi di essere condannati alla fine e al tramonto di una certa idea di partito? Siamo proprio certi che non siano più necessarie, in forme innovative, forme strutturate di organizzazione e associazione politica che svolgano quelle stesse ineludibili funzioni che i partiti hanno svolto in quel passato? E l’idea di socialismo appartiene davvero solo al nostro passato?
E poi, per tornare alla foto di Amendola e Ingrao: ci dobbiamo rassegnare alla fine di una civiltà della conversazione politica? Alla fine di una politica nutrita di idee, conoscenze, curiosità per quanto accade nel nostro mondo, e curiosità per la storia possiamo provare a costruire?
Ecco, è forse questa la “nostalgia” che suscita questa foto, ma anche la carica vitale, positiva, che ne deriva: ciò che oggi il nostro tempo ci impone con una sorta di imperativo morale è forse proprio questo, prima di tutto il resto, ossia ridare dignità alla politica. Amendola e Ingrao, com’è noto, si scontrarono duramente nel corso dell’XI° congresso del Pci (1966), il primo dopo la morte di Togliatti. Fu una battaglia politica aspra, fu anche un conflitto di potere (come inevitabile che fosse), ma fu condotto sulle idee e sulle strategie, sui grandi temi del futuro democratico del nostro paese e sulle prospettive del movimento operaio internazionale. Non per questo, ne siamo certi, venne mai meno l’amicizia e la stima tra i protagonisti, il senso di una comune appartenenza: quella stessa pacata fraternità che traspare dai volti fissati in questa foto. Forse, oggi, nell’interrogarci su un possibile, e necessario, nuovo partito della sinistra, bisogna ripartire da qui. Senza una cornice comune, senza una cultura politica condivisa, senza una memoria storica, non si “tiene assieme” un partito.
Riflettere sulle ragioni di un “cattivo” presente e sugli errori commessi, è necessario; ma questo diventa un esercizio sterile se assume la forma della recriminazione, se si riduce tutto alla retorica delle occasioni perdute. Se si è “nostalgici” di qualcosa di buono, beh, forse si può anche essere capaci e desiderosi di costruirlo e ripensarlo, oggi. Se, al contrario, il passato diviene un “buco nero”, allora non ci resta che brancolare nel buio.
Sul valore politico della nostalgia
Ho trovato per caso sul mio computer una vecchia foto di Giorgio Amendola e Pietro Ingrao. E’ una foto che ha suscitato in me un’onda di idee e di emozioni.
Non so né la data, né l’occasione in cui è stata scattata. Probabilmente, una festa nazionale dell’Unità o una manifestazione (i due hanno la coccarda con il simbolo del partito), magari dietro il palco del comizio. Amendola e Ingrao, in questa foto, sembrano cinquantenni: la foto, possiamo dedurre, risale agli anni Sessanta. I due stanno conversando: e possiamo solo provare a immaginare cosa si stessero dicendo. Dai volti e dalle espressioni possiamo pensare che Ingrao avesse raccontato ad Amendola un qualche episodio curioso o divertente, chissà, magari una chiacchiera di partito su qualcuno o qualcosa. Amendola sembra reagire dicendo quasi: “ma davvero, ma guarda un po’!”, con un filo di ironia. Dalla foto emerge una conversazione pacata, dai volti e dalle espressioni emerge l’infinita curiosità umana e intellettuale dei due personaggi.
E’ inutile negarlo: questa foto mi ha prodotto una grande nostalgia. Nostalgia per un grande partito (quale che sia oggi il giudizio storico sui suoi meriti e i suoi errori); nostalgia per un tempo in cui la politica viveva di una dimensione comunitaria, di idee e di dialogo; nostalgia per una civiltà della politica che oggi sembra smarrita. Ma mi ha anche prodotto un sentimento di riconoscenza e di gratitudine: dover ammettere con me stesso di essere stato fortunato, negli anni della mia giovinezza, ad incontrare questa politica. Ricordo ancora come, nel 1972, a 16 anni, il segretario della nostra federazione del Pci, che si intratteneva fino a notte fonda a discutere di politica con noi ragazzi, passeggiando su e giù per il corso del mio paese, mi avesse consigliato di leggere un testo di Amendola, un saggio sulla storia d’Italia e sul “ruolo nazionale” del movimento operaio, appena apparso su una rivista della “nuova sinistra” di allora, “Giovane critica”. Un saggio che dovrei ricercare, in qualche biblioteca…e che allora mi convinse in modo decisivo ad iscrivermi al Pci.
In genere, nel lessico politico odierno, dare del “nostalgico” a qualcuno significa biasimare il suo sguardo rivolto all’indietro, il suo attardarsi nel rimpianto di un tempo passato, il suo distacco dalle novità del presente.
Io vorrei qui, al contrario, rivendicare il valore politico, e il valore positivo, della nostalgia. La politica, la politica di chi si riconosce in un ideale di giustizia e democrazia, non può vivere spezzando il filo della memoria storica. Ma proprio la storia del Novecento, con i successi e le sconfitte che ha vissuto il movimento operaio (nelle sue due grandi correnti, quella socialdemocratica e quella comunista), ci consegna questo insegnamento: la sinistra ha concepito la propria azione dentro una peculiare “filosofia della storia”, mossa cioè dall’idea che il proprio compito fosse inscritto, come incastonato, nel movimento oggettivo della storia – una storia retta da una propria “logica” contraddittoria, su cui si trattava di far leva per dare un “senso” al futuro, per costruire questo futuro.
Oggi – da almeno un quarto di secolo – la storia ha imbrogliato e rimescolato le proprie carte: è difficile cogliere in quanto accade un “senso” univoco, una “direzione”. E, come ben sappiamo, molto semplicemente, il “nuovo” non è per nulla, né immediatamente, di per sé “migliore” del passato. Si è spezzata una lettura teleologica dei processi storici: viviamo in un presente storico che può essere concepito solo come un campo plurimo di tensioni e di conflitti, e il loro esito complessivo, il loro “sbocco”, non può essere prefigurato – solo gli storici del futuro potranno dirci se oggi stiamo vivendo una qualche “transizione”, anche se noi non sappiamo bene verso dove, e forse non lo sapremo mai. Ma se non c’è più un “senso” della storia, non per questo è venuto meno il bisogno di “dare un senso” a ciò che accade. Ed è qui che scatta la “nostalgia”, positivamente intesa: la nostalgia diviene un sentimento negativo, un senso di ripiegamento inerte sul passato, solo se si presuppone che il corso della storia contenga in sé il “progresso”. Ma se così non è, e sappiamo oramai che così non è, la nostalgia può essere intesa come memoria di momenti migliori, consapevolezza che un’altra politica è stata possibile, e che potrebbe essere ancora possibile. Se non c’è più un flusso univoco del cambiamento storico, che lascia dietro di sé solo macerie e rovine, allora anche la “nostalgia” può assumere un senso diverso: come memoria dei momenti “alti” del proprio passato (non poi così remoto, in fondo), come “modello” positivo a cui ispirarsi nelle mutate condizioni del presente.
Si pensi solo all’idea di partito: siamo proprio certi di essere condannati alla fine e al tramonto di una certa idea di partito? Siamo proprio certi che non siano più necessarie, in forme innovative, forme strutturate di organizzazione e associazione politica che svolgano quelle stesse ineludibili funzioni che i partiti hanno svolto in quel passato? E l’idea di socialismo appartiene davvero solo al nostro passato?
E poi, per tornare alla foto di Amendola e Ingrao: ci dobbiamo rassegnare alla fine di una civiltà della conversazione politica? Alla fine di una politica nutrita di idee, conoscenze, curiosità per quanto accade nel nostro mondo, e curiosità per la storia possiamo provare a costruire?
Ecco, è forse questa la “nostalgia” che suscita questa foto, ma anche la carica vitale, positiva, che ne deriva: ciò che oggi il nostro tempo ci impone con una sorta di imperativo morale è forse proprio questo, prima di tutto il resto, ossia ridare dignità alla politica. Amendola e Ingrao, com’è noto, si scontrarono duramente nel corso dell’XI° congresso del Pci (1966), il primo dopo la morte di Togliatti. Fu una battaglia politica aspra, fu anche un conflitto di potere (come inevitabile che fosse), ma fu condotto sulle idee e sulle strategie, sui grandi temi del futuro democratico del nostro paese e sulle prospettive del movimento operaio internazionale. Non per questo, ne siamo certi, venne mai meno l’amicizia e la stima tra i protagonisti, il senso di una comune appartenenza: quella stessa pacata fraternità che traspare dai volti fissati in questa foto. Forse, oggi, nell’interrogarci su un possibile, e necessario, nuovo partito della sinistra, bisogna ripartire da qui. Senza una cornice comune, senza una cultura politica condivisa, senza una memoria storica, non si “tiene assieme” un partito.
Riflettere sulle ragioni di un “cattivo” presente e sugli errori commessi, è necessario; ma questo diventa un esercizio sterile se assume la forma della recriminazione, se si riduce tutto alla retorica delle occasioni perdute. Se si è “nostalgici” di qualcosa di buono, beh, forse si può anche essere capaci e desiderosi di costruirlo e ripensarlo, oggi. Se, al contrario, il passato diviene un “buco nero”, allora non ci resta che brancolare nel buio.
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Antonio Floridia
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