Nell’analizzare il risultato del referendum costituzionale c’è chi ha collegato l’esito del voto alla condizione materiale delle persone.
I dati elaborati da diversi istituti di analisi demoscopica rivelano, per esempio, che nei 100 comuni con il maggior livello di disoccupazione il risultato del NO è stato del 7% superiore alla media nazionale e, viceversa, in quelli con più occupazione è stato il SI ad ottenere quasi 20 in più della media nazionale. Se incrociamo i Si ed i No alla riforma con il reddito medio, con la posizione professionale e l’età, abbiamo un analogo riscontro: hanno votato No le categorie più deboli. Quelle che più di tutte le altre stanno subendo gli effetti della crisi economica e della precarietà del mercato del lavoro.
Rileggendo questi numeri diventa interessante rileggere una teoria, scritta dell’economista austro-ungherese Karl Polanyi. La teoria è passata alla storia con il nome di “embeddedness” (l’integrazione) e spiega come l’economia sia profondamente integrata alle dinamiche della società. La democrazia diventa lo specchio delle disuguaglianze economiche, di un rapporto impari e dello squilibrato tra capitale e lavoro.
Il referendum su una riforma Costituzionale nata per iniziativa stessa del Governo, diventa quindi uno strumento per sovvertire un’approccio ritenuto responsabile – in toto o in parte – delle disuguaglianze e la realtà prende il sopravvento, lasciando ben poco spazio alle discussioni di merito sulla modifica costituzionale.
Proviamo a porci queste domande. Chi paga il prezzo principale di una retorica del merito che esclude una parte rilavante della popolazione?
Chi troverà un posto di lavoro più precario di quello avuto dai propri genitori o dai colleghi di lavoro più anziani? Chi ha subito i processi di de-industrializzazione derivati dalla scelta del capitale di investire in parti del mondo con un costo del lavoro inferiore?
Si potrebbe andare avanti all’infinito.
Negli ultimi venti anni abbiamo gradualmente superato l’idea che i partiti nascessero da “fratture” della società, come scriveva nel secolo scorso Stein Rokkan, per arrivare a considerare normale che le forze politiche possano equamente rappresentative di tutte le classi sociali. I giovani dirigenti post comunisti che hanno preso le redini della sinistra italiana nei primi anni ’90 sono proprio partiti da questo concetto per spiegare al proprio popolo la necessità di superare il passato ed aderire prima alla socialdemocrazia e poi alla terza via, saltando a piè pari la fase socialista.
Questo ha ridotto al minimo le differenze ideali tra le parti politiche, confondendo il superamento degli ideali con il superamento delle ideologie. Nel nostro paese, in parallelo, è invece sorto dalle ceneri di un sistema parlamentare demolito dalla fine della Prima Repubblica un modello di Governo che – dal livello locale sino a quello nazionale – ha rafforzato l’idea che l’alternanza e lo scontro politico si dovessero spostare dal dibattito parlamentare al dibattito elettorale, finalizzato alla conquista del potere esecutivo. Con un vincitore eletto dal popolo che, senza dover affrontare nessuna “burocrazia opprimente” e senza corpi intermedi, governa su tutti nel nome di chi lo ha votato.
Il problema è il rafforzamento di una dimensione plebiscitaria e maggioritaria dell’esecutivo che rischia di diventare un mero confronto tra gruppi di potere privi – agli occhi dei cittadini – di differenze ideali e programmatiche concrete. Nel dibattito referendario, in questo senso, mi hanno colpito due esempi: l’uso, da parte degli esponenti del Governo, di un linguaggio proprio del populismo di destra per descrivere il Senato e la presa di posizione pubblica di alcuni esponenti del Partito Democratico che considerano normale che un movimento politico chiamato “nuovo centrodestra” possa fare parte del “centrosinistra”.
Di fronte a Partiti sempre meno distinguibili tra loro e di fronte ad un Governo che riduce gli spazi di confronto con la società senza fornire risposte sociali ed economiche alla maggioranza del paese, la risposta è stata chiara: NO. Ed è arrivata su un argomento apparentemente diverso, la Costituzione. Ma la distanza tra la condizione materiale delle persone e la Costituzione è molto più ridotta di quanto possa apparire: se una classe politica non fornisce risposte nell’immediato, non può nemmeno essere legittimata a modificare le regole che reggeranno la democrazia nel lungo periodo.
Credo, per concludere, che questo referendum possa segnare uno spartiacque importante nel rapporto tra Parlamento e Governi, tra cittadini ed eletti. Finisce definitivamente – dopo i segnali dati tra il 2012 ed il 2015 – una Seconda Repubblica fondata sul graduale scolorimento degli ideali politici e delle piattaforme dei Partiti. Del resto ci viene detto da tutto il mondo: Austria, Regno Unito, Stati Uniti, Spagna, Grecia: se la destra e la sinistra diventano due modi diversi di interpretare il centro liberale subordinato senza critica alle logiche del mercato, la realtà prende il sopravvento e le condizioni materiali delle persone portano a sostenere chi più prende le distanze dal sistema vigente.
Può sopravvivere la sinistra? Certo. Può vivere una sinistra che sia chiaramente schierata nelle battaglie che toccano le grandi disuguaglianze del nostro tempo. Quella che Polanyi chiamava “della terra” e che oggi potremmo attualizzare nel concetto di tutela dell’ecosistema. Nessuna sinistra di oggi può prescindere dall’ecologia come strumento per ridurre le disuguaglianze sociali. E poi il lavoro, come forma per determinare il proprio futuro e quello dei propri figli in sicurezza. Un socialismo moderno che parli a chi ha paura del futuro, prima che altri usino la paura per parlare alle persone. E convincerle.