Con uno storico voto nell’ambito della Conferenza indetta dall’Assemblea Generale con la risoluzione 71/258 del 26 dicembre 2016, le Nazioni Unite hanno adottato il Trattato di messa al bando delle armi nucleari. E’ successo pochissimo tempo fa, solo nel luglio dell’anno in corso, ma alla luce di ciò che continua ad accadere, il fatto sembra non avere i contorni di un avvenimento storico quanto, piuttosto, di una necessaria formalità senza alcuna sostanza.
Le cronache, le valutazioni degli esperti e degli analisti ci raccontano, al contrario, che è in corso un’inarrestabile corsa agli armamenti, compresi quelli nucleari.
Sappiamo di Kim Jong – un, il dittatore nord coreano ha innescato una escalation nucleare che, a ben vedere, ha di fatto rappresentato un formidabile alibi per molti paesi per giustificare aumenti più che significativi di fondi “per la difesa”. Convincono poco le rassicurazioni di alcuni esperti circa le strategie di Pyongyang. L’incremento dell’arsenale missilistico sarebbe conseguenza dell’impossibilità di investire risorse finanziarie per mantenere competitivo un apparato militare elefantiaco e obsoleto. Già su questo ci sarebbe da obiettare che, al di là della presunta povertà della Corea del Nord, il paese ha fatto registrare negli ultimi anni una crescita del PIL sino al 4% e, considerato quanto normalmente viene investito in spese militari, ci sarebbero state risorse sufficienti per iniziare un programma di ammodernamento dell’esercito nord coreano. Quindi, ritengo, le ragioni vanno individuate altrove. L’inesperto ma non sprovveduto dittatore, come viene etichettato da più parti, vorrebbe accreditarsi come leader di una potenza nucleare e negoziare un accordo da una posizione di forza. Ma di quale accordo dovrebbe trattarsi?

Notoriamente la Corea del Nord, a causa dei tratti illiberali e, per diversi aspetti, sanguinari del suo regime, è stato colpito da diverse sanzioni e vive in una situazione di quasi totale isolamento. Tale strategia avrebbe quindi come fine quello di intensificare il proprio arsenale nucleare e accettare una successiva moratoria in cambio di un allentamento della morsa delle sanzioni stesse. Ipotesi suggestiva e sostanzialmente tranquillizzante se non fosse per la circostanza che un riarmo nucleare non presuppone necessariamente l’uso sia pur dimostrativo di missili a medio raggio. L’esperienza iraniana è, da questo punto di vista, illuminante. Il regime di Teheran si è fatta la sua bella bomba atomica, l’ha testata di nascosto e successivamente ha negoziato con Obama un accordo di limitazione oggettivamente vantaggioso non solo per se stesso ma, oggettivamente, per il mondo intero.
Quali che siano le reali intenzioni di Kim Jong, non possono lasciar tranquilli le reazioni che hanno innescato.
Spettatore non disinteressato è la Cina che malgrado i formali e assai poco veementi richiami alla , ha tentato di accreditarsi come possibile mediatore per spingere Trump ad un accordo più ampio che ridefinisca delicati equilibri nell’area del Pacifico, comprese le spinose questioni di Taiwan e degli arcipelaghi cinesi contesi (isole Spratly, rivendicate anche da Vietnam e Filippine). Da Washington sino ad oggi solo sdegnosi rifiuti e minaccia di ritorsioni economiche.
Anche il Giappone, complice un missile disarmato che ha sorvolato l’isola di Hokkaido, ha annunciato una politica di pesante riarmo, anche nucleare. Poco incide il fatto che questa nazione non potrebbe avere armi di questo tipo in base al trattato di Tokyo del 1945. Del resto, lo stesso trattato prevede che possa essere dotato unicamente di forze armate di “autodifesa”. In realtà il premier Shinzo Abe ha fatto già modificare la Costituzione per consentire l’impiego delle forze armate all’estero. Il tutto nel totale silenzio della comunità internazionale.

Comunità internazionale muta anche quando Donal Trump, nel denunciare unilateralmente l’accordo con l’Iran, contemporaneamente siglava un accordo con l’Arabia Saudita per 110 miliardi di dollari in armamenti. Non occorre essere un esperto di politica internazionale per sapere quanto poco idilliaci siano i rapporti tra sauditi e iraniani.
Lo stesso Trump ha annunciato un aumento delle spese militari statunitensi pari a 54 miliardi di dollari.
La coperta è corta, ma anche l’Italia ha voluto fare la sua parte: 800 milioni di euro in più.
Ne sarebbero bastati meno per eliminare il super ticket e permettere a milioni di italiani poveri o al limite della povertà di tornare a curarsi. Decentemente.

La politica, quella italiana in particolare, tace. Sembrerebbe che la ragion di Stato, la Realpolitik, siano diventate l’unico punto cardinale da seguire. E in ragione di ciò, per quanto riguarda il nostro Paese, vengono giustificate decisioni ignobili come quelle di armare le milizie di Haftar per limitare gli sbarchi di disperati, o riprendere le normali relazioni diplomatiche con l’Egitto, tanto Giulio Regeni è solo uno striscione giallo sempre più sbiadito che penzola dal balcone di sempre meno sedi istituzionali.
Tace anche la cosiddetta “società civile”, a parte la voce di qualche lodevole associazione.
Non so se si tratta di una sorta di “riflusso 2.0” o se, peggio, si ritengano personaggi come Trump e Kim Jong delle macchiette sostanzialmente inoffensive, capaci di sceneggiate che comunque non avranno mai effetti terribili.

Più di settanta anni fa, un tizio dichiarò tronfio alla propria nazione che gli sarebbero serviti solo “diecimila morti per sedermi al tavolo delle trattative di pace”. Ecco, non vorrei che qualche dottor Stranamore dei nostri giorni abbia messo in conto, visto l’enormità degli interessi economici in gioco, che qualche centinaia di migliaia di morti (del resto a Hiroshima ne morirono “solo” trecentomila) sia un prezzo accettabile da pagare per trattare da una posizione di forza.
E in questo dissennato war game, si dimenticano le decine di civili uccisi quotidianamente in medio oriente.
L’unica e autorevole voce che si è alzata è quella di Papa Francesco e non si è limitato solo alla denuncia ma è andato oltre, promuovendo per la prossima settimana un incontro internazionale in Vaticano dedicato proprio a questi temi. Un primo tassello, secondo il Santo Padre, per scuotere le coscienze dei potenti e di tutti noi sul rischio di suicidio dell’umanità.
La dignità del lavoro, gli effetti nefasti del capitalismo e del mercato, ora il rischio della guerra. Papa Francesco sembra abbia assunto un ruolo di supplenza rispetto alla politica su temi che non sembrano più emozionare nessuno. Occorre che questi temi, e quello della Pace in particolare, tornino ad occupare l’agenda delle forze politiche, soprattutto di quelle di sinistra. E’ in gioco molto più che qualche voto alle prossime elezioni. Torniamo ad essere gramscianamente partigiani.

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